Da “GUIDA AL DIRITTO” n. 47 del 9 dicembre 2006
Il testo originario affermava che l’azione riparatoria “va proposta nel termine di un anno dalla data della divulgazione, salvo che il soggetto interessato non dimostri di averne avuto conoscenza successivamente”. Il testo della legge, invece, recupera i termini (5 anni) dell’articolo 2947 del Codice civile: «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato…In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile». Questa norma espone giornalisti ed aziende al rischio di vedersi citare in giudizio, anche a distanza di 7-10 anni, per fatti remoti e sui quali il giornalista non ha conservato alcuna documentazione. Chi è diffamato in sostanza incassa due somme, una sotto il profilo dei danni e una a titolo riparatorio.
Il commento di Franco Abruzzo
Il senso della legge 281/2006, che ha convertito il dl 27 settembre 2006 n. 259 sulla normativa in tema di intercettazioni telefoniche, si può sintetizzare così: l’ascolto illecito è fuori dalla Costituzione, ma la distruzione delle registrazioni abusive è una prerogativa affidata soltanto al Gip, mentre il Pm mantiene un ruolo rilevante nella fase iniziale del procedimento che porta alla distruzione delle registrazioni illegittime.
Cosa cambia. La vecchia stesura del rinnovato articolo 240 Cpp (Documenti anonimi ed atti relativi ad intercettazioni illegali) parlava di “autorità giudiziaria” (i ruoli di Pm e Gip non erano chiari). Oggi, invece, il Pm “dispone l’immediata secretazione e la custodia in luogo protetto dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti. Allo stesso modo provvede per i documenti formati attraverso la raccolta illegale di informazioni. Di essi è vietato effettuare copia in qualunque forma e in qualunque fase del procedimento ed il loro contenuto non può essere utilizzato. Il Pm, acquisiti i documenti, i supporti e gli atti, entro quarantotto ore, chiede al giudice per le indagini preliminari di disporne la distruzione”. Il Gip a sua volta “ entro le successive quarantotto ore fissa l’udienza da tenersi entro dieci giorni, ai sensi dell’articolo 127 Cpp, dando avviso a tutte le parti interessate, che potranno nominare un difensore di fiducia, almeno tre giorni prima della data dell’udienza”.
Sentite le parti comparse, il Gip “legge il provvedimento in udienza e, nel caso ritenga sussistenti i presupposti, dispone la distruzione dei documenti, dei supporti e degli atti e vi dà esecuzione subito dopo alla presenza del pubblico ministero e dei difensori delle parti. Delle operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel quale si dà atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti nonché delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti”. La procedura è estremamente garantista e per quanto riguarda i tempi di azione (48 ore per il Pm e 48 ore per il Gip) è evidente il raddoppio delle 24 ore previste nell’articolo 21 (IV comma) della Costituzione. E’ sempre consentita la lettura dei verbali relativi all’acquisizione ed alle operazioni di distruzione degli atti.
Questa legge ha sullo sfondo l’articolo 15 della Costituizione secondo il quale “la libertà e la segretezza della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione sono inviolabili. La loro limitazione può avvenire soltanto per atto motivato dell’Autorità giudiziaria con le garanzie stabilite dalla legge”. Ne consegue che le intercettazioni illegali non rientrano nel diritto di cronaca e non possono trovare cittadinanza nelle pagine dei giornali. Diverso è il discorso sulle intercettazioni disposte dall’autorità giudiziarie: quelle (una volta depositate in cancelleria) si possono pubblicare, ma salvaguardando la dignità delle persone coinvolte.
Della stesura originaria dell’articolo 240 rimane in piedi soltanto il primo comma: “I documenti che contengono dichiarazioni anonime non possono essere acquisiti né in alcun modo utilizzati, salvo che costituiscano corpo del reato o provengano comunque dall’imputato”. Sotto il profilo strettamente giudiziario, le intercettazioni illecite non possono offrire ai Pm “spunti di indagine”, perché sono state raccolte senza “un atto motivato dell’Autorità giudiziaria” (la Cassazione sul punto è univoca).
Sanzioni penali. L’articolo 3 della legge punisce chiunque consapevolmente detiene gli atti, i supporti o i documenti di cui sia stata disposta la distruzione con la pena della reclusione da sei mesi a quattro anni (in precedenza sei anni). Si applica la pena della reclusione da uno a cinque anni (in precedenza 7 anni) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio. Le pene, quindi, sono state addolcite (nel massimo).
Editori, articolisti e direttori di giornali. L’articolo 4 si rifà ai contenuti dell’articolo 11 (Responsabilità civile) della legge 47/1948 sulla stampa (“Per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore”) e a quelli dell’articolo 12 (Riparazione pecuniaria) della stessa legge (“Nel caso di diffamazione commessa col mezzo della stampa, la persona offesa può chiedere, oltre il risarcimento dei danni ai sensi dell’art. 185 del Codice penale, una somma a titolo di riparazione. La somma è determinata in relazione alla gravità dell’offesa ed alla diffusione dello stampato”). L’assonanza è perfetta. Chi è diffamato in sostanza incassa due somme, una sotto il profilo dei danni e una a titolo riparatorio. Lo stesso schema è stato riprodotto nella legge 281/2006, che punisce chi pubblica intercettazioni abusive.
L’articolo 4 afferma che “a titolo di riparazione può essere richiesta all’autore della pubblicazione degli atti o dei documenti documenti (concernenti dati e contenuti di conversazioni o comunicazioni, relativi a traffico telefonico e telematico, illegalmente formati o acquisiti, ndr) , al direttore responsabile e all’editore, in solido fra loro, una somma di denaro determinata in ragione di cinquanta centesimi per ogni copia stampata, ovvero da 50.000 a 1.000.000 di euro secondo l’entità del bacino di utenza ove la diffusione sia avvenuta con mezzo radiofonico, televisivo o telematico. In ogni caso, l’entità della riparazione non può essere inferiore a 10.000 euro (in precedenza 20.000 euro). L’azione può essere proposta da parte di coloro a cui i detti atti o documenti fanno riferimento. L’azione si prescrive nel termine di cinque anni (un anno nel testo originario) dalla data della pubblicazione. Agli effetti della prova della corrispondenza degli atti o dei documenti pubblicati con quelli (distrutti) fa fede il verbale. Si applicano, in quanto compatibili, le norme di cui al capo III del titolo I del libro IV del codice di procedura civile. L’azione è esercitata senza pregiudizio di quanto il Garante per la protezione dei dati personali possa disporre ove accerti o inibisca l’illecita diffusione di dati o di documenti, anche a seguito dell’esercizio di diritti da parte dell’interessato. Qualora sia promossa per i medesimi fatti anche l’azione per il risarcimento del danno, il giudice tiene conto, in sede di determinazione e liquidazione dello stesso, della somma già corrisposta (a titolo di riparazione, ndr)”.
Il testo originario affermava che l’azione riparatoria “va proposta nel termine di un anno dalla data della divulgazione, salvo che il soggetto interessato non dimostri di averne avuto conoscenza successivamente”. Il testo della legge, invece, recupera i termini (5 anni) dell’articolo 2947 del Codice civile. Con la sentenza n. 5259/1984, la Corte di Cassazione ha stabilito che ogni cittadino può tutelare il proprio onore e la propria dignità in sede civile senza avviare l’azione penale. Ogni cittadino può agire in sede penale entro tre mesi dalla pubblicazione della notizia diffamatoria (art. 124 Cp). Il Parlamento non ha provveduto, dopo la sentenza, a coordinare il tempo per l’azione civile con quello previsto per l’azione penale. Così è rimasto in vigore l’articolo 2947 del Cc, in base al quale «il diritto al risarcimento del danno derivante da fatto illecito si prescrive in 5 anni dal giorno in cui il fatto si è verificato…In ogni caso, se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, questa si applica anche all’azione civile». Questa norma espone giornalisti ed aziende al rischio di vedersi citare in giudizio, anche a distanza di 7-10 anni, per fatti remoti e sui quali il giornalista non ha conservato alcuna documentazione. I tempi dell’azione civilistica, secondo Fnsi e Ordine, dovrebbero essere contenuti in 180 giorni dalla diffusione della notizia ritenuta illecita o diffamatoria.
L’azione del Garante della privacy non è stata ampliata: il potere di infliggere sanzioni pecuniarie resta solidamente nelle mani dei tribunali.
Le sanzioni previste dall’articolo 4 sono pesanti e sono correlate alla lesione di diritti primari costituzionalmente protetti. Il rispetto della dignità della persona (art. 2 della Costituzione e art. 2 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione di giornalista) è il limite costituzionale interno all’esercizio del diritto di cronaca e di critica. Il riconoscimento del diritto-dovere di cronaca non può comportare il sacrificio del principio del rispetto della reputazione e della dignità della persona umana. I giornalisti ora sono avvertiti. Le intercettazioni illegali sono fuorilegge.
Una contraddizione decisiva ai fini processuali. Il secondo comma dell’articolo 4 afferma che “agli effetti della prova della corrispondenza degli atti o dei documenti pubblicati con quelli di cui al comma 2 dell’articolo 240 del codice di procedura penale fa fede il verbale di cui al comma 6 dello stesso articolo”. Secondo il sesto comma dell’articolo 240 del Cpp, “delle operazioni di distruzione è redatto apposito verbale, nel quale si dà atto dell’avvenuta intercettazione o detenzione o acquisizione illecita dei documenti, dei supporti e degli atti di cui al comma 2 nonché delle modalità e dei mezzi usati oltre che dei soggetti interessati, senza alcun riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti”. Domanda: se nel verbale non c’è “alcun riferimento al contenuto degli stessi documenti, supporti e atti (distrutti)” come può stabilire il giudice che un giornale pubblica le “carte” distrutte se il verbale non può concretamente “far fede”?