William Paley, presidente dell’americana CBS (70 mln di ascoltatori, 117 stazioni in 26 mercati), ha annunciato che l’azienda sta valutando opzioni tattiche del comparto radio per «aprire possibilità di rendita per gli azionisti».
Tradotto: la radio è in vendita. Secondo alcuni analisti la novantenne emittente (fu fondata nel 1927) che veicolò nel ‘38 la falsa invasione marziana di Orson Welles, seminando il panico negli Stati Uniti, non sarebbe più considerata strategica per gli inserzionisti, più interessati ad investire su servizi quali Spotify o Pandora. Semplicistico: in realtà, la CBS, come tante vecchie aziende editoriali, ha mostrato di non sapere, non volere o non potere gestire il cambiamento epocale dell’era interconnessa. Non è infatti in discussione il futuro del mezzo radiofonico in quanto tale (come non lo è quello dei giornali o della tv), ma la sua declinazione su Internet. Un problema che interessa anche le radio italiane: a sentire gli editori nostrani, tutti sono convinti che il futuro della radiofonia passerà dal web, ma poi, nella sostanza, si limitano a realizzare lo streaming del segnale FM e ad interagire con Facebook e Twitter. Troppo poco (e, a breve, troppo tardi). L’integrazione è faccenda molto più profonda e complessa che passa dalla capacità di adattarsi ai mutamenti. Nemesi: il romanzo di H.G. Wells si fonda sul principio dell’evoluzione. Sopravvive non il soggetto più forte, ma quello che si sa conformare ai cambiamenti.