La direttiva europea 29/2005/CE alla luce degli interventi a tutela del consumatore

L’articolo dell’avv. Delli Ponti pubblicato su questo periodico ha generato un proficuo scambio con un lettore che ci ha trasmesso una sua interessante ricerca sull’argomento


Il dr. Stefano Cionini, a riguardo dell’articolo( Stop alle pratiche commerciali sleali) della nostra articolista Alessandra Delli Ponti, pubblicato da questo periodico il 06/08/2007, ci ha cortesemente trasmesso un interessante contributo realizzato nell’ambito dei propri studi giuridici, che pubblichiamo integralmente.

La direttiva europea 29/2005/CE alla luce degli interventi a tutela del consumatore

Introduzione – 4 –
Capitolo 1 – Un nuovo scenario negli ordinamenti europei: la “Teoria del consumatore” – 6 –
1.1 – Nascita ed evoluzione. – 6 –
1.2 – Il caso italiano – 10 –
1.3 – Dalla stratificazione normativa al “Codice del Consumo”. – 16 –
Capitolo 2. “Unfair commercial pratics directive”. La Direttiva Europea 29/2005/CE. – 21 –
2.1 – Breve descrizione e principali novità – 21 –
Capitolo 3. Il ruolo fondamentale della regola della correttezza – 30 –
3.1 – Buona fede oggettiva e principi di adempimento delle obbligazioni. Brevi cenni. – 30 –
3.2 – La buona fede oggettiva. Linee evolutive di un principio cardine. – 31 –
Capitolo 4. Il consenso viziato e la Direttiva 29/2005/CE. – 42 –
4.1 – I vizi del consenso nel Codice Civile. Breve disamina. – 42 –
4.2 – Pubblicità e pubblicità ingannevole – 46 –
4.3 – La disciplina codicistica dei vizi del consenso e i criteri della Direttiva 29/2005/CE – 47 –
Capitolo 5. Conclusioni – 50 –

Introduzione

La Comunità Europea riconosce l’ importanza della tutela del consumatore e promuove interventi volti ad introdurre un maggiore equilibrio normativo nei contratti stipulati da imprese e professionisti( ) con questa particolare categoria di soggetti di diritto che, nelle leggi e nelle sentenze della Corte di Giustizia delle Comunità Europee, vengono definiti come “persone fisiche che agiscono per scopi estranei alla propria attività professionale”.
Questo processo ha avuto inizio con la Risoluzione del Consiglio 14 aprile 1975 che individua cinque categorie di diritti fondamentali destinati a costituire la base della legislazione comunitaria in materia:
1. diritto alla tutela della salute e della sicurezza;
2. diritto alla tutela degli interessi economici;
3. diritto al risarcimento dei danni;
4. diritto all’ informazione e all’ educazione;
5. diritto alla rappresentanza.
Così è stato in questi ultimi trent’ anni, nel corso dei quali l’ interventismo europeo ha contribuito a creare negli ordinamenti degli stati membri un vero e proprio corpus normativo relativo ai rapporti tra imprese e consumatori.
Questi sono a tutti gli effetti parte del rapporto di consumo, attori del mercato che, per soddisfare le proprie esigenze primarie e non, entrano in rapporto con il complesso sistema economico europeo delle imprese e dei professionisti, ma con un sostanziale difetto di informazione. E’ proprio questa asimmetria informativa uno degli elementi, forse il più importante, che li classifica come soggetti meritevoli di una speciale tutela. Detto regime protezionistico dovrebbe, negli scopi del Trattato e nelle intenzioni del legislatore europeo, tendere ad una sostanziale omogeneizzazione della normativa all’ interno di tutta l’ Unione, allo scopo di garantire un uniforme livello di tutela, informazione ed educazione al consumo ai cittadini europei.

Capitolo 1 – Un nuovo scenario negli ordinamenti europei: la “Teoria del consumatore”

1.1 – Nascita ed evoluzione.

La maggior parte dei codici civili europei appaiono originariamente disinteressati nei confronti della categoria dei consumatori. Soltanto il Codice Civile Italiano del 1942 prevedeva, e prevede tuttora, una specifica disciplina per le condizioni generali di contratto( ).
Propulsore di una legislazione ad hoc per soggetti ritenuti, in sede di contrattazione, deboli, perciò meritevoli di una particolare tutela, è senz’ altro l’ Unione Europea .
Conviene a questo punto chiedersi perché la legislazione a tutela dei consumatori sia un tema che si è formato solo di recente( ) e “al di fuori delle categorie giuridiche tradizionali”( ).
La dottrina a cui ci riferiremorinviene la ragione di un così tardivo intervento “in un’ esigenza del mercato, la quale si manifesta soltanto con la maturità del sistema capitalistico dell’ economia e della società”( ) ( ), d’ altro canto “il diritto civile romanistico è formalmente pre-capitalistico, ossia disciplina gli istituti che ne fanno parte, anzitutto il contratto, indipendentemente dalla regolazione del mercato”( ).
La formazione del diritto dei consumatori come realtà normativa può considerarsi compiutamente avvenuta in Europa dalla metà degli anni Settanta( ). Francia e Germania furono i primi Stati a mettersi al passo con le nuove prospettive di diritto privato dei contratti. Dietro i due audaci pionieri si sono via allineati tutti gli altri stati membri.
Dal punto di vista della tecnica normativa si presentavano ai legislatori europei due modelli. L’uno, di tradizione francese, prevedeva “il consolidamento settoriale del diritto dei consumatori in un testo unico talvolta definito come un vero e proprio codice”( ); l’ altro, tedesco, in cui il diritto dei consumatori “è stato organicamente integrato nel codice civile, mediante la collocazione delle norme che ne fanno parte all’ interno delle discipline preesistenti”( ).
Proprio quest’ ultimo metodo viene ritenuto dalla predominante dottrina quello preferibile. “Una legge speciale organica muove surrettiziamente dal presupposto che esso (il diritto dei consumatori, ndr) si fondi su valori alternativi a quelli del codice civile”( ), si potrebbe configurare con le caratteristiche di un “intervento di politica sociale, con effetti redistributivi della ricchezza”( ), una sorta di “surrogato psicologico della lotta di classe ( ), assolutamente incommensurabile con la disciplina dettata dal codice civile e con i valori che essa esprime, o almeno presuppone: l’ autonomia privata e il mercato. In base a questa impostazione, dunque, il consumatore andrebbe “tutelato contro il mercato e a discapito dell’ autonomia negoziale”( ), tradendo palesemente tutte le conquiste a cui il diritto privato, nella sua sistematica evoluzione, è giunto.
Il diritto positivo europeo, e nazionale, supera questa concezione. Il consumatore riceve una tutela “concepita come un intervento di regolazione del mercato, conforme alla logica del mercato”( ). Non si impone in nessun caso un determinato assetto degli interessi economici delle parti in trattativa, ma si cerca di indirizzarle sulla direttrice di alcune fondamentali “regole del gioco”. I meccanismi del mercato devono essere comunque preservati, ogni attore dell’ universo consumeristico deve poter perseguire “il proprio vantaggio individuale”( ) ( ).
La ratio di queste osservazioni trae origine da quello che il celebre economista Adam Smith( ), nella sua opera sulla Ricchezza delle Nazioni, già prospettava: l’ unico tipo di regolazione del mercato può essere immaginato solo afferente una tutela della concorrenza attraverso interventi che vietino concentrazioni economiche e comportamenti scorretti tra imprenditori. Sennonché in tale teoria non residua alcuno spazio per una vera e propria tutela del consumatore.
In questo contesto, al nostro soggetto di riferimento, si affida il ruolo di semplice “destinatario passivo della politica di ristrutturazione del mercato […], si riteneva che il miglior modo per tutelare il consumatore fosse quello di assicurare un’ effettiva e leale concorrenza tra gli imprenditori”( ).
D’ altronde, l’ evoluzione del sistema capitalistico ha dimostrato che quel primordiale tipo di regolazione del mercato era sì necessario, ma non certo sufficiente per garantirne l’ efficienza.
Molto spesso consumatori ed utenti non possono esercitare la loro autonomia negoziale in alcune situazioni oggi assolutamente tipiche (es., i c.d. “contratti di massa”) e risentono delle distorsioni dovute alla concorrenza tra imprenditori. “Il diritto della concorrenza, per sua natura, non può rimediare a quest’ ulteriore paradigma di fallimento del mercato”( ), il quale è “determinato da una strutturale asimmetria informativa tra le parti contraenti: occorrevano dunque nuove regole di diritto dei contratti, grazie alle quali gli utenti ed i consumatori finali fossero realmente in grado di individuare e di scegliere l’ offerta più vantaggiosa da parte degli imprenditori”( ).
Tali regole costituiscono, alla luce degli intervenni che si sono seguiti nel tempo, un limite all’ autonomia contrattuale degli imprenditori “sicuramente riconducibile al principio generale di buona fede”( ) ( ).

1.2 – Il caso italiano

Fin qui siamo stati a cercare una valida base su cui poggiare la disciplina a tutela del consumatore. Regole che guidano e proteggono tale soggetto nell’ universo dei contratti. A questo punto è opportuno ed indispensabile dare conto, almeno sommariamente, di questa normativa contenuta nel neonato Codice del Consumo( ), inizialmente trasposta nel codice civile agli artt. 1469 bis e ss. dalla legge 6 febbraio 1996, n. 52 che ha recepito la direttiva europea 93/13/CEE, relativa alle “Clausole vessatorie nei contratti del consumatore”, alla quale ci riferiremo nella successiva esposizione.
Tale norma, se integrata con ulteriori disposizioni che si sono susseguite nel tempo( ), fornisce un valido quadro di riferimento di interventi che, talvolta direttamente, talvolta indirettamente, si prefiggono lo scopo di riequilibrare dal punto di vista normativo il regolamento di interessi tra consumatori e professionisti o imprese.
Come più volte avremo modo di ricordare, il concetto di consumatore, pur essendo nozione poliedrica, si materializza nella disposizione dell’ art. 1469 bis, 2°comma, c.c. come “persona fisica che agisce per scopi estranei all’ attività imprenditoriale o professionale eventualmente svolta”; proseguendo si rinviene anche la definizione di “professionista”, delineato “persona fisica o giuridica, pubblica o privata, che, nel quadro della sua attività imprenditoriale o professionale, utilizza il contratto di cui al primo comma” (quello “che ha per oggetto la cessione di beni o la prestazione di servizi”, ndr).
Configurate le due figure di riferimento, gli artt. 1469 bis (3° comma) – 1469 sexies “introducono un controllo di tipo sostanziale sul contenuto dei contratti dei consumatori”( ) incentrato sulla nozione di vessatorietà della clausola. Ai sensi dell’ art. 1469 bis, 1° comma, c.c. si considerano vessatorie le “clausole che, malgrado la buona fede, determinano a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”.
In sostanza sono vessatorie quelle clausole che, “in contrasto con la buona fede oggettiva, risultano significativamente squilibrate a carico del consumatore. Non si tratta di uno svantaggio di natura economica, ma di uno squilibrio normativo, di una debolezza del consumatore nelle facoltà giuridiche riconosciutegli dal contratto, per cui il giudizio di vessatorietà opera un controllo sulla giustizia normativa del contenuto contrattuale”( ) ( )
L’ art. 1469 ter, 2° comma, c.c. puntualizza che “la valutazione del carattere vessatorio della clausola non attiene alla determinazione dell’ oggetto del contratto né all’ adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, purché tali elementi siano identificati in modo chiaro e comprensibile”.
Soffermandoci ancora su tale articolo, esso dispone che sia esclusa la vessatorietà della clausola “oggetto di trattativa individuale”, ovvero quando riproduca disposizioni di legge “o attuative di principi contenuti in convenzioni internazionali delle quali siano parti contraenti tutti gli Stati membri dell’ Unione Europea o l’ Unione Europea”.
Dimostrare la vessatorietà di una clausola non è certo cosa agevole e, il nostro legislatore, sullo stampo della direttiva 93/13/CEE, ha voluto avvantaggiare il contraente debole anche sotto il profilo probatorio. L’ art. 1469 bis, 3° comma, c.c. stabilisce un elenco di clausole che si presumono vessatorie sino a prova contraria. A tal proposito si è operata un’ inversione dell’ onere della prova che pone il professionista nella condizione di doverne dimostrare la non vessatorietà.
Le clausole che l’ art. 1469 bis, 3° comma, c.c. presume vessatorie possono essere ordinate per gruppi. “Un primo ambito riguarda le clausole che tendono a ridurre gli strumenti di tutela e di autotutela del consumatore”( ); “un secondo gruppo di ipotesi abbraccia le clausole che determinano un vantaggio eccessivo a favore solo del professionista e a carico del consumatore”( ); “infine un terzo ambito attiene alle clausole che tendono a creare una situazione di potenziale sorpresa per il consumatore rispetto allo stesso contenuto dell’ impegno contrattuale”( ).
Un ristretto elenco di clausole il cui carattere particolarmente gravoso ha indotto il legislatore ad escludere la trattativa individuale come prova contraria nel giudizio di vessatorietà, ce lo fornisce l’ art. 1469 quinquies, 2° comma, c.c. . “Oggetto” o “effetto” di tali clausole deve essere:
1) “escludere o limitare la responsabilità del professionista in caso di morte o danno alla persona del consumatore, risultante da un fatto o da un’ omissione del professionista”( );
2) “escludere o limitare le azioni del consumatore nei confronti del professionista o di un’ altra parte in caso di inadempimento totale o parziale o di inadempimento inesatto da parte del professionista”( );
3) “prevedere l’ adesione del consumatore come estesa a clausole che non ha avuto, di fatto, la possibilità di conoscere prima della conclusione del contratto”( ).
Per quanto concerne la tutela sostanziale riservata al consumatore, il legislatore ne ha previste due: quella inibitoria verso l’ uso di clausole vessatorie contenute in condizioni generali di contratto (art. 1469 sexies c.c.) e l’ “inefficacia” per clausole vessatorie previste in uno specifico contratto (art. 1469 quinquies c.c.).
Il primo e un rimedio “general – preventivo”, poiché colpisce le condizioni generali di contratto (che per loro natura sono destinate a regolare una generalità di atti), inibendo l’ uso delle condizioni di cui sia stata accertata l’ abusività e, dunque, prevenendo in una generalità di casi l’ apposizione di clausole vessatorie nei contratti dei consumatori”( ). L’ utilizzo quanto la raccomandazione( ) all’ utilizzo di condizioni generali di contratto vessatorie, sono presupposti dell’ azione inibitoria. Ex art. 1469 sexies sono legittimati ad esperirla le “associazioni rappresentative dei consumatori e dei professionisti e le camere di commercio, industria, artigianato e agricoltura nei confronti di un professionista o di un’ associazione di professionisti”( ).
Il secondo rimedio ha carattere “individual – successivo” poiché interviene su uno specifico contratto già concluso, attribuendo al giudice il potere di dichiarare l’ inefficacia delle clausole ritenute, a norma di legge, vessatorie. La disciplina del rimedio appena citato si rinviene dalle prescrizioni dell’ art. 1469 quinquies c.c. .
Legittimato attivo è in questo caso lo stesso consumatore, pur essendo, a suo vantaggio, l’ inefficacia rilevabile anche d’ ufficio. Essa si configura come “parziale necessaria”, nel senso che non travolge l’ intero accordo.
Altri elementi che permeano e completano il discorso possono desumersi “dai caratteri propri di un controllo ispirato alla buona fede oggettiva”( ): la pronuncia che accerta la vessatorietà ha carattere costitutivo, azione ed eccezione sono irrinunciabili, il vizio è insanabile, fatto salvo il caso in cui le parti decidano per una rinegoziazione della clausola in conformità con la regola della correttezza
Le norme generali del nostro ordinamento giuridico, infine, assegnano ad azione ed eccezione un tempo di prescrizione ordinario (ex art. 2946 c.c., 10 anni) e fanno operare l’ inefficacia esclusivamente inter partes.

1.3 – Dalla stratificazione normativa al “Codice del Consumo”.

Il legislatore nazionale ha prodotto una serie di disposizioni che lo hanno messo al passo con l’ evoluzione della normativa a tutela del consumatore, procedendo però con interventi orientati “per tema” e mai, fino ad oggi, “per materia”, creando un coacervo di norme per lo più contenute nella legislazione speciale. Da ciò l’ esigenza messa in luce dalla legge di delega 29 luglio 2003, n. 229 con la quale, all’ art. 7, si incaricava il Governo di ordinare, armonizzare e omogeneizzare questa copiosa stratificazione normativa in un testo che raccogliesse, in modo coerente e sistematico, tutte le disposizioni in materia di protezione e tutela del consumatore.
Seguendo questa direttrice si è giunti d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 noto come “Codice del Consumo”.
Operare una codifica e non una mera raccolta (es. in un Testo Unico) è evidentemente qualcosa di più che creare un agevole strumento di consultazione per interpreti e cittadini, con questo metodo si compie un vero e proprio riordino di un’ intera materia.
Cercheremo ora di dar conto, in maniera assai sintetica, delle principali novità che il “Codice del Consumo” introduce nel nostro ordinamento giuridico.
Consuetudine vuole che nel corso di questi ultimi anni il legislatore declami in apertura delle leggi speciali le formule definitorie. Così anche nel Codice del Consumo, dove la Parte Prima relativa alle “Disposizioni Generali” non presenta novità di sorta per quanto concerne i diritti dei consumatori e le definizioni di “consumatore o utente”, “professionista”, “associazione di consumatori”.
La Parte Seconda disciplina l’ “informazione, l’ educazione e la pubblicità” accogliendo norme delle leggi 281/98, 126/91 e del Decreto Ministeriale 101/97. Una norma è stata aggiunta all’ art. 4, relativa all’ “educazione del consumatore” di cui vengono individuate le finalità nel favorire la consapevolezza dei diritti, lo sviluppo dell’ associazionismo, la partecipazione ai procedimenti amministrativi e la rappresentanza.
Il Titolo II si occupa dell’ informazione ai consumatori. Rispetto al d.lgs 84/2000 viene specificato che, ai fini delle norme sull’ informazione “si intende per consumatore o utente anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le informazioni commerciali”(art. 5); viene aggiunto al contenuto minimo delle informazioni l’ indicazione del paese d’ origine dei prodotti se situato al di fuori dell’ UE (art. 6) ed è introdotto l’ obbligo per i distributori di carburante di rendere visibili dalla strada i prezzi praticati al consumo.
Proseguendo nella rassegna, un’ ulteriore sfaccettatura della nozione di consumatore si rinviene nel Titolo III relativo alla “pubblicità” ex d.lgs 74/1992 e d.lgs. 67/2000. Qui si afferma che ai fini delle norme sulla pubblicità e sulle altre comunicazioni commerciali “si intende per consumatore o utente anche la persona fisica o giuridica cui sono dirette le comunicazioni commerciali o che ne subisce le conseguenze”(art. 18 par. 2).
Proprio quest’ ultimo punto merita un approfondimento: nonostante la nozione di consumatore sia stigmatizzata in apertura del Codice all’ art. 3 (“persona fisica che agisce per finalità estranee alla propria attività economica”), essa continua ad essere poliedrica. Si potrebbe giungere, ai fini della menzionata disciplina, a far corrispondere questa figura addirittura con un’ impresa commerciale o altro soggetto giuridico che non sia propriamente una “persona fisica”.
Sempre nell’ ambito del Titolo III si evidenzia la rinnovata disciplina a tutela del consumatore in materia di televendite (artt. 28 – 32), già legge 120/1998 e legge 39/2002, nelle quali sono “comprese quelle di astrologia, di cartomanzia ed assimilabili”. La norma pone il divieto di sfruttamento ai fini delle televendite di superstizione, credulità o paura.
Per quanto riguarda la disciplina dei “Contratti del Consumatore” e la “Disciplina sulla vendita dei beni di consumo”, è importante segnalarne l’ espunzione dal Codice Civile, dove fino ad oggi sembrava dovessero naturalmente trovare cittadinanza, ed il relativo inserimento nel nuovo Codice del Consumo (Parte III (Rapporto di consumo), Titolo I, artt. 33 – 37 , ex Codice Civile artt. 1469bis – 1469 sexies; Parte IV (Sicurezza e Qualità), Titolo III, artt. 128 – 135, ex Codice Civile artt. 1519bis – 1519nonies).
La modifica apportata in questa parte dal legislatore colpisce con la nullità le clausole di cui sia stata accertata la vessatorietà, rinforzando la tutela del consumatore rispetto alla precedente “inefficacia”.
Autentica novità dell’ intervento legislativo si rinviene, ancora nella Parte III, al Titolo II, art. 39, sull’ obbligo di valutare i principi di buona fede, correttezza e lealtà nelle attività commerciali “anche alla stregua delle esigenze di protezione delle categorie di consumatori” .
Il Titolo III della Parte III, relativo alle “modalità contrattuali”, raccoglie agli artt. 45 – 49 (Sezione I) le norme relative ai “contratti negoziati fuori dai locali commerciali” con una significativa unificazione per l’ esercizio dello jus poenitendi. L’ unico termine per il suo esercizio è di 10 giorni lavorativi, generalizzando così la previsione più vantaggiosa per il consumatore (quella relativa ai “contratti a distanza”). Inoltre, se nella precedente disciplina il consumatore che esercitava il recesso doveva risarcire le spese accessorie indicate preventivamente nel contratto, ora le sole spese dovute sono quelle “dirette alla restituzione del bene al mittente ove previsto dal contratto”.
Terza novità rilevante riguarda, in questa parte del Codice, la materia del credito al consumo. L’ eventuale contratto di finanziamento concesso al consumatore viene risolto di diritto dall’ esercizio del diritto di recesso. Senza dubbio si rafforza la figura ed il rilievo del collegamento negoziale.
La Parte V del Codice (Associazioni dei consumatori e accesso alla giustizia) aggiunge, con l’ art. 141, alle previgenti norme una nuova regola per la composizione extragiudiziale delle controversie che possono essere avviate ora anche per via telematica, favorendo indubbiamente il ricorso a queste forme di risoluzione dei conflitti intersoggettivi ad oggi prevalentemente amministrati dalle Camere di Commercio.

Capitolo 2. “Unfair commercial pratics directive”. La Direttiva Europea 29/2005/CE.

2.1 – Breve descrizione e principali novità

L’ attenzione che gli organi della Comunità Europea riversano sui soggetti commercialmente ed economicamente più deboli, è linfa vitale per interventi quali la direttiva 11 maggio 2005, 29/2005/CEE, sulle “Pratiche commerciali sleali” (Unfair commercial pratics directive), ulteriore rafforzamento della tutela riservata al consumatore.
Questa disposizione dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 12 giugno 2007. Per quanto riguarda l’ Italia possiamo ragionevolmente presumere che la relativa norma andrà ad integrare il “Codice del Consumo”.
Il legislatore europeo ha previsto un meccanismo di revisione della direttiva che vedrà la Commissione, entro il 12 giugno 2011, sollecitare al Parlamento Europeo e al Consiglio una “relazione globale sull’ applicazione della direttiva” e sulle “possibilità di armonizzare e semplificare ulteriormente il diritto comunitario in materia di protezione dei consumatori”( ).
Anche da questa procedura si nota come il diritto europeo spinga verso un’ omogeneizzazione delle normative interne ai vari ordinamenti statali, in particolare su ambiti riconducibili agli scambi economici di fondamentale importanza in un mercato sempre più “unico” e “globale”
Il campo d’ azione della direttiva può essere circoscritto a ciò che riguarda le pratiche il cui intento diretto è quello di influenzare le decisioni di natura commerciale dei consumatori relative a prodotti. Quelle che verranno definite “sleali”, in base a specifici criteri contenuti nella disposizione, dovranno essere ovviamente vietate e sanzionate.
La Direttiva fornisce in apertura (art. 2 delle “Disposizioni Generali”) alcune definizioni che segnano in un certo modo la rotta che i legislatori nazionali dovranno seguire in sede di recepimento della stessa.
Tralasciando le figure del consumatore o utente, del professionista e di prodotto che non presentano novità di sorta (vedremo in seguito la nuova figura del consumatore medio posta in relazioni con taluni pratiche “unfair”), soffermiamoci su alcune rilevanti definizioni forniteci dal testo in esame.
Le pratiche commerciali prese a riferimento sono quelle che intercorrono tra imprese e consumatori rappresentate “da qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità ed il marketing, posta in essere da un professionista, direttamente connessa alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori”( ). Quelle che la direttiva vuole colpire “falsano in misura rilevante il comportamento economico dei consumatori”( ) là dove “l’ impiego di una pratica commerciale risulti idonea ad alterare sensibilmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole, inducendolo pertanto ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”.
Relativamente a quest’ aspetto tenteremo, successivamente( ), un raffronto con la disciplina dei “Vizi del consenso”. Risulta palese l’ assonanza nella definizione della condotta del professionista appena ricordata con le fattispecie di “dolo” e “violenza”.
La direttiva non tralascia il ruolo dei Codici di Condotta. Nell’ esperienza giuridica italiana sono già presenti in molte categorie professionali. Costituiscono una delle tante normative così dette ad “adesione volontaria”: nelle intenzioni della direttiva in esame “accordi o normative non imposti dalle disposizioni legislative, regolamentari o amministrative di uno Stato membro e che definisce il comportamento dei professionisti che si impegnano a rispettare tale codice in relazione ad una o più pratiche commerciali o ad uno o più settori imprenditoriali specifici”( ).
Ragionevolmente, questi, possono costituire uno strumento di preminente importanza per operare una vera e propria opera di prevenzione in riferimento a comportamenti scorretti. E’ auspicabile che, anche alla luce della nuova normativa europea, se ne incentivi sempre più l’ adozione per una generalità di categorie professionali e commerciali con lo scopo di rafforzare la tutela per consumatori ed utenti.
Un codice di condotta presuppone che sia contestualmente istituita una figura “professionista o un gruppo di professionisti, responsabile della sua formulazione e revisione e/o del controllo del rispetto del codice da parte di coloro che si sono impegnati a rispettarlo”. Proseguendo, al punto h) dell’ art. 2 troviamo proprio la figura appena descritta del “Responsabile del Codice”.
Nell’ orbita giuridica del professionista, la norma rivede il concetto di diligenza professionale relazionandola a pratiche di mercato oneste e/o al principio generale della buona fede nel settore di attività del professionista, cristallizzandola sul normale grado della speciale competenza e attenzione che ragionevolmente si possono presumere essere esercitate da un professionista nei confronti dei consumatori. Merita a tal proposito sottolineare che il nostro legislatore, con l’ art. 1176, 2° comma, c.c. , impone una valutazione della diligenza professionale con riguardo alla sola “natura dell’ attività esercitata”. A livello comunitario si è dunque aggiunta una ulteriore modulazione rapportata alla buona fede oggettiva.
La direttiva prosegue nelle definizioni circoscrivendo il concetto, che per effetto della disposizione diviene giuridico, di “invito all’ acquisto”. Lo configura come “una comunicazione commerciale indicante le caratteristiche ed il prezzo del prodotto in forme appropriate rispetto al mezzo impiegato per la comunicazione commerciale e pertanto tale da consentire al consumatore di effettuare un acquisto”( ).
Il punto j) dell’ art. 2 classifica l’ “indebito condizionamento” come “sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole.
Ai fini della direttiva una “decisione di natura commerciale” è quella “presa da un consumatore relativa a se acquistare o meno un prodotto, in che modo e a quali condizioni, se pagare integralmente o parzialmente, se tenere un prodotto o disfarsene o se esercitare un diritto contrattuale in relazione al prodotto. Tale decisione può portare il consumatore a compiere un’azione o astenersi dal compierla”.
Niente di nuovo per quanto concerne le cosiddette “professioni regolamentate” che si confermano “attività professionali l’accesso alle quali e il cui esercizio, o una delle cui modalità di esercizio, è subordinata direttamente o indirettamente, in base a disposizioni legislative, regolamentari o amministrative, al possesso di determinate qualifiche professionali”( ).
Ai fini della direttiva in esame le pratiche commerciali sleali vengono configurate di due tipi: quelle ingannevoli e quelle aggressive. L’ ambito temporale da prendere in considerazione riguarda quelle poste in essere “prima, durante e dopo un’ operazione commerciale relativa ad un prodotto”, così art. 3 par. 1.
Una pratica commerciale può ingannare sia tramite un’ azione, sia tramite un’ omissione. Per quanto concerne il comportamento omissivo dell’ impresa o professionista verso il pubblico dei consumatori si prevede un livello minimo di informazioni commerciali sul prodotto che devono essere fornite al fine di orientare una scelta consapevole. A titolo di esempio queste riguardano le caratteristiche principali del prodotto, il prezzo comprensivo di tasse, le spese di consegna, il diritto di recesso.
D’ altro canto, una pratica è ingannevole “per azione” se contiene informazioni false ovvero se induce o può indurre in errore il consumatore medio, ancorché siano oggettivamente corrette.
In aggiunta la direttiva definisce i criteri per stabilire se una pratica commerciale sia o meno aggressiva, se cioè questa utilizza molestie, costrizioni (ivi compresa la violenza fisica) o indebito condizionamento.
In riferimento a quest’ ultimo concetto è necessario considerare:
a) Tempo, luogo, natura o persistenza;
b) Ricorso a minaccia fisica o verbale;
c) Sfruttamento da parte del professionista di eventi tragici che siano idonei ad alterare la capacità di valutazione del consumatore;
d) Ostacolo non contrattuale oneroso per l’ esercizio di diritti contrattuali;
e) Minaccia da parte del professionista di promuovere un’ azione legale ove questa non sia giuridicamente ammessa;
Un elenco completo dei comportamenti commerciali sleali vietati in tutta l’ Unione Europea in ogni circostanza è contenuto nell’ allegato I e, a titolo esemplificativo, se ne possono citare alcuni tra i più rilevanti, quali i sistemi piramidali di vendita, la fornitura non richiesta ovvero l’ utilizzazione della pubblicità di un prodotto a buon prezzo ma non disponibile (c.d. pubblicità-esca) ovvero l’ utilizzazione di finte interviste pubbliche. Già questi brevi richiami rendono bene l’ idea di quanto influirà anche sul nostro mercato interno il recepimento della normativa in esame.
La direttiva, riferendo il suo ambito di applicazione alle pratiche commerciali tra professionista e consumatore, in relazione a quest’ultimo, prende a riferimento il soggetto medio modulandolo in relazione a diversi fattori.
Nello specifico definisce la figura del consumatore medio come individuo normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto tenuto conto di fattori sociali, culturali e linguistici (definizione dinamica, dunque).
Quando poi una pratica sia specificatamente diretta ad un determinato gruppo di consumatori, come ad esempio i bambini, è auspicabile che l’ impatto della pratica commerciale venga valutato nell’ ottica del soggetto medio di quel gruppo che diviene il vero punto di riferimento.
Per quanto concerne la tutela sostanziale del consumatore, la direttiva, pur caldeggiando lo strumento dei codici di condotta, peraltro già esistenti in molti settori, prevede l’ azione giudiziaria o il ricorso ad autorità amministrative, strutturate in maniera tale da garantire ai cittadini che vi ricorrano un buon grado di indipendenza, allo scopo di risolvere eventuali conflitti o promuovere ricorsi. I possibili esiti di questi rimedi dovranno tendere alla cessazione della pratica commerciale (ovvero ad azioni rivolte a tale scopo), oppure ad un procedimento d’ urgenza di tipo cautelare che sbocchi in un provvedimento con effetto provvisorio o definitivo.
In relazione a quest’ ultimo punto è verosimile prevedere che il legislatore italiano utilizzi i già vigenti rimedi general-preventivi in sede di conciliazione extragiudiziale dinnanzi a commissioni all’ uopo istituite presso le Camere di Commercio per quanto concerne i diritti e gli interessi attivabili ex Codice del Consumo( ).
Non manca chi a tal proposito auspica un nuovo istituto giuridico ricalcato sul modello delle class action americane. Queste conferiscono alle organizzazioni dei consumatori il potere di adire l’ autorità giurisdizionale su clausole o contratti che presumono vessatori o comunque in contrasto con la normativa di settore a prescindere dall’ iniziativa della parte lesa.
Argomento su cui la direttiva tace sono le sanzioni. Il legislatore europeo ne rimette la definizione agli organi statuali limitandosi a dire che dovranno essere effettive, proporzionate e dissuasive.

Capitolo 3. Il ruolo fondamentale della regola della correttezza

3.1 – Buona fede oggettiva e principi di adempimento delle obbligazioni. Brevi cenni.

Considerando che tra professionista e consumatore si instaura un rapporto contrattuale, per quanto concerne la parte della direttiva che insiste su aspetti e comportamenti tendenti ad orientare le scelte del consumatore, è necessario dar conto della disciplina relativa ai principi di adempimento delle obbligazioni in vigore nel nostro ordinamento giuridico. Il riferimento agli artt. 1175, 1176 appare assolutamente necessario.
L’art. 1175 c.c. stabilisce quanto segue:« Il debitore e il creditore devono comportarsi secondo le regole della correttezza». L’art. 1176 c.c., dal suo canto, così recita: «Nell’adempiere l’obbligazione il debitore deve usare la diligenza del buon padre di famiglia. Nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale, la diligenza deve valutarsi con riguardo alla natura dell’attività esercitata».
A questo panorama normativo va senza dubbio aggiunto l’ art. 1375 c.c. , il quale statuisce l’ esecuzione del contratto secondo buona fede.
Sintetizzando in tre parole le disposizioni sopra richiamate stiamo trattando di “correttezza”, “diligenza”, “buona fede”. Questi tre concetti devono essere tenuti in preminente considerazione in tutti i rapporti contrattuali, ivi compresi quelli “del consumatore”.
L’ attuazione del rapporto obbligatorio è dominata dalla stessa regola che già scandisce tutto l’ iter contrattuale: la correttezza (art. 1375) o buona fede oggettiva.
Giunti a questo punto, risulta fondamentale dare conto del dibattito attualmente in corso proprio su questo tema. Richiameremo, dunque, alcune considerazioni relative ai prevalenti orientamenti dottrinali volti a delinearne i contenuti e che svolgono un ruolo di fondamentale importanza in tema di contratti, ivi compresi quelli “del consumatore”.

3.2 – La buona fede oggettiva. Linee evolutive di un principio cardine.

La regola della correttezza viene elevata dal nostro ordinamento civilistico a rango di vera e propria clausola generale, posta a governo della totalità dei rapporti che si generano dall’ esercizio della c.d. “autonomia privata”, sancita nel Codice Civile dagli artt. 1321 e ss. .
In tema di integrazione del contratto l’ interprete, ai sensi dell’ art. 1374, è tenuto a considerare anche l’ equità come fonte. Combinando, dunque, gli artt. 1366 e 1374 cc. si fornisce al giudice, qualora sia chiamato ad intervenire su di un determinato regolamento pattizio di interessi, un importante orientamento per risolvere l’ eventuale squilibrio normativo del contratto.
D’ altro canto, risulta in via generale soltanto la buona fede intesa in senso oggettivo titolare di una “funzione lato sensu correttiva a posteriori”( ). Per quanto concerne l’ equità, essa deve essere considerata in quanto richiamata dalla legge.
Guardando al nostro ordinamento giuridico in generale, la sua evoluzione è oggi dovuta essenzialmente alla normativa comunitaria. Il diritto contrattuale, nello specifico, è stato oggetto di una rilevante spinta innovatrice proveniente dalla Comunità Europea nella direzione di una tendenziale armonizzazione ed omogeneizzazione dei sistemi giuridici degli Stati membri. Su questo sfondo si propone sempre più stringente il “collegamento tra buona fede ed equità all’ insegna di una preminenza della prima sulla seconda”( ).
Correttezza ed equità vengono espressamente allineate, e menzionate assieme alla trasparenza, nel catalogo dei diritti fondamentali riconosciuti ai consumatori e agli utenti dalla legge 30 luglio 1998, n. 281.
La buona fede, dal canto suo, assume definitivamente, con la Direttiva 93/13/CEE “concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori”( ) e con la relativa introduzione nel Codice Civile degli artt. 1469 bis ss.( ), il ruolo di principio cardine, confermato da numerosi orientamenti giurisprudenziali( ), che “guida e delimita il giudizio sull’ equità delle clausole contrattuali( )”, attribuendo al giudice il compito di verificare se, in concreto, una determinata clausola “determini a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto”( ).
Dottrina vuole che la buona fede sia comunque “espressione del diritto positivo, pur essendo rivolta al superamento del positivismo”( ). Rappresenta una vera e propria esigenza di solidarietà, peraltro costituzionalmente riconosciuta, che giustifica un incisivo intervento sul contratto da parte di un potere alieno alle parti, quello del giudice, ma ciononostante “non autoritario in quanto si limita a filtrare valori sociali entro la forma giuridica”( ). Insomma una sorta di efficace correttivo che sonnecchia accanto al contratto.
A ben vedere appare pertinente affermare che la regola della correttezza si configura come elemento posto a governo dell’ intera vicenda contrattuale. Essa si attaglia perfettamente, oltre che alla disciplina afferente i consumatori ed utenti, anche a vicende contrattuali che possono sorgere nel mercato delle imprese, locus artificiails in cui è prospettabile un ruolo preminente della buona fede( ), ai fini di una sua regolamentazione fino addirittura a divenire un vero e proprio elemento correttivo. “Un mercato evoluto postula un sistema normativo che abbia la sua “parola – chiave” nella correttezza”( ). In questo contesto, dunque, si ravvisa nella buona fede proprio uno “strumento di efficienza nel governo del mercato (e più nello specifico dei contratti di impresa) che: evita i costi transattivi necessari a governare gli effetti spesso arbitrari delle regole rigide; previene le conseguenze dannose delle asimmetrie informative […]; e consente di reagire ad abusi collegati con i c.d. fallimenti del mercato”( ).
La buona fede oggettiva, oltre che orientare, sviluppare, arricchire e finanche ricostruire l’ accordo, ha, dal tempo della Direttiva 93/13/CEE “concernente le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori”( ), assunto un ruolo c.d. “destruens”( ), rappresentando un “criterio ermeneutico tramite cui giudicare la giustizia normativa dell’ accordo e colpire, originariamente con l’ inefficacia, oggi, ex Codice del Consumo, per effetto dell’ istituto della nullità( ), le clausole inique”( ). In quest’ ambito il giudice effettua un “controllo sui contenuti”( ) dell’ accordo. Tale intervento della buona fede, promosso da una parte e valutato dall’ interprete alla stregua di specifici parametri giuridici, non opera ex se, ma presuppone una condizione di squilibrio nell’ esercizio dell’ autonomia privata.
Proprio a tal proposito è necessario segnalare, proiettandoci nell’ ambito della legislazione speciale relativa ai “consumatori”, un vivace dibattito dottrinale relativamente ai destinatari della tutela all’ uopo prevista.
Prendendo a riferimento il nostro ordinamento giuridico, la giurisprudenza sembra non avere dubbi sui destinatari della protezione nei confronti di “clausole vessatorie” ex artt. 33 e ss. Codice del Consumo. Schivando qualsiasi spinta dottrinale relativa ad un interpretazione estensiva della disciplina sulle clausole normative, per i giudici il consumatore è e rimane “persona fisica”. D’ altro canto, chi in dottrina sostiene che tale ambito sia fin troppo riduttivo poggia le proprie ragioni, tra l’ altro, su di un emergente orientamento europeo, in parte contrapposto a quello strettamente normativo finora ritagliato sulla figura del consumatore utente identificato come “contraente debole che non è riuscito a negoziare il contenuto contrattuale”( ), emergente dalle proposte di armonizzazione europea della disciplina del contratto (i Principles of European Contract Law e i principi Unidroit). Qui si lega “l’ accertamento sulla giustizia normativa soltanto alla mancata negoziazione delle clausole” prevedendo “un sindacato sull’ equilibrio economico dell’ atto connesso con un’ ampia descrizione di “debolezza contrattuale” di una parte”( ).
Come già accennato in precedenza, proprio la Direttiva in esame, pur essendo volta ad ampliare la tutela del consumatore, fornisce a questo soggetto un corredo di caratteristiche che, per volontà dello stesso legislatore europeo, estendono in certi casi ad enti e persone giuridiche tale qualifica( ).
Cercando di rendere meglio l’ idea su uno dei presupposti dal quale muove tale dottrina, leggendo la disciplina dei contratti del consumatore nella prospettiva della rimozione delle asimmetrie informative, una delle cause, forse la più importante, dello squilibrio contrattuale, appare utile ricordare chi ha tentato una distinzione tra “atti della professione” e “atti relativi alla professione”( ). Tale criterio si discosta da quello dello “scopo” del contratto (causa professionale, non tutelata dagli artt. 33 e ss. Codice del Consumo; causa privata, abbracciata da tale tutela), ritenuto ingiustificatamente riduttivo, in quanto consente la “correzione delle asimmetrie informative solo nei casi di consumo “privato” e non anche “professionale”, non considerando che le asimmetrie informative riguardano l’ atto di consumo (finale), a prescindere dal fatto che esso sia personale o professionale”( ). Paradossalmente, potrebbe usufruire della protezione il cittadino che acquista un computer per navigare in internet e non l’ avvocato che acquista lo stesso strumento, ma lo impiega nel suo studio. Appare invece ragionevole presumere per quanto concerne “l’ atto della professione”, dunque strettamente legato e funzionale all’ attività imprenditoriale o professionale del soggetto o dell’ ente, ridotta la forbice informativa tra chi acquista e chi vende( ).
Dopo questa breve digressione torniamo a delineare il concetto di buona fede oggettiva, ricordando che una rilevante novità della Direttiva 2005/29/CE è proprio la rivisitazione della “diligenza professionale”, istituto che si troverà ad accogliere, nella prospettiva delle “pratiche commerciali”, una modulazione relazionata proprio al criterio della “correttezza” che, alla luce della dottrina qui esposta, identificherà “squilibri non fisiologici nell’ esercizio dell’ autonomia privata” e sarà al tempo stesso “canone di interpretazione che accerta l’ abuso nella determinazione del contenuto del contratto”( ).
Un primo criterio per poter apprezzare la buona fede oggettiva, deve trarsi dal raccordo tra la clausola generale e i principi costituzionali, specificatamente, dal principio di uguaglianza sostanziale. Emerge così la necessità di “misurare la forza o la debolezza delle parti, avendo riguardo allo specifico contesto di riferimento”( ).
In secondo luogo la buona fede indica la “necessaria considerazione sia di parametri normativi sia delle circostanze del caso concreto”( ). Lo squilibrio nell’ esercizio dell’ autonomia privata va ricostruito “ponderando tanto indici normativi quanto elementi di fatto avendo riguardo allo specifico ambito in cui si colloca la contrattazione, a partire dalla basilare distinzione tra accordi conclusi dentro e fuori il mercato dei rapporti commerciali”( ); è verosimile che, dal recepimento della direttiva in poi, si aggiungeranno anche i criteri relativi alla valutazione della bontà di pratiche commerciali utilizzate per carpire il consenso dei consumatori ed utenti.
Tutto ciò considerato, ex fide bona, si autorizza, come già ricordato, un controllo del giudice sul contenuto del contratto (Inhaltskontrolle, nell’ ordinamento tedesco, pioniere di questa disciplina), con relativa adozione di interventi volti a riequilibrare il negozio giuridico.
Al tempo del recepimento della Direttiva 93/13/CEE, il nostro legislatore introdusse il rimedio dell’ “inefficacia” delle clausole vessatorie. L’ alternativa poggiava o sulla nullità o sulla nullità speciale. Si scelse una diversa strada attraverso l’ anodina formula dell’ inefficacia che “pur nella sua ambiguità, consente di separare concettualmente, oltre che praticamente, l’ ipotesi in cui nel contratto le parti si sottraggano ad una norma imperativa” – intervento della nullità radicale – “e il caso in cui è l’ attività di formazione del contenuto contrattuale che in concreto e a posteriori risulta non coerente con una regola di condotta a cui le parti si dovrebbero attenere”( ). Insomma, una sorta di imprescindibile “deontologia” del contratto in cui un ingiustificato squilibrio non può sempre trovare cittadinanza nel concetto di “autonomia delle parti”. Meglio ancora, nel “contratto iniquo viene perseguito non un contenuto contrario alla buona fede, ma una condotta contraria alla buona fede che si riverbera su un contenuto in sé non illecito bensì squilibrato in senso normativo e, dunque, non coerente con i risultati a cui avrebbe dovuto condurre una contrattazione conforme a correttezza”( ).
Proprio la condotta oggetto della riflessione appena citata, pare attagliarsi a quelle che dovranno essere valutate dagli organi competenti, alla stregua della direttiva in esame, pratiche commerciali “sleali”, sanzionabili alla luce delle nuove prospettive contrattuali europee, ma ad oggi ampiamente diffuse. A titolo meramente esemplificativo si ricorda il c.d. multilevel marketing, sistema di vendita e promozione dei più svariati prodotti, con cui si abbraccia dal settore degli integratori alimentari fino a giungere, addirittura, alle polizze di previdenza. Attualmente tale pratica, che dal recepimento della direttiva 2005/29/CE sarà vietata o quantomeno incisivamente contenuta, viene collocata tra i sistemi di vendita c.d. “al di fuori dei locali commerciali”.
Proseguendo, possiamo concludere sul punto tracciando i tratti caratteristici del concetto di buona fede oggettiva che, come visto, nonostante sia un valore vecchio come vecchia è la contrattazione privata, ha una forte capacità di rinnovamento e si adatta senza fatica alle più recenti ed innovative evoluzioni della lex mercatoria. Essa diviene “clausola cardine del contratto della post – modernità, dove è interesse di ciascun contraente, tanto più impellente in quanto meno schermato della protezione dello Stato, perseguire le proprie istanze in conflitto con gli interessi della controparte, operando in un contesto sempre più libero, ma non governato dalla pura forza, in una realtà e secondo una logica sempre più competitive e antagoniste, ma proprio per questo di necessità assoggettate al vincolo del necessario rispetto della controparte”( ).
La correttezza guarda a valori non tanto pubblicistici, bensì a quelli fondamentali di rispetto delle persone. Questi si coniugano in maniera spontanea con le principali tendenze europee proprio che spingono, diremmo inevitabilmente, verso l’ armonizzazione delle discipline giuridiche, ivi compreso il diritto privato dei contratti.
Dunque, “la buona fede oggettiva, categoria sempre più ricca e penetrante sul piano operativo, libera da vincoli ideologici e dogmatici del passato e con una precisa vocazione europea, non perde la sua identità, ma si rinnova dando voce ad una nuova assiologia aggregante i paesi europei nella quale si rispecchia un’ Europa complessa, che guarda non soltanto al mercato e all’ efficienza, ma anche al piano dei valori”( ).

Capitolo 4. Il consenso viziato e la Direttiva 29/2005/CE.

4.1 – I vizi del consenso nel Codice Civile. Breve disamina.

Proseguendo con il confronto tra la normativa vigente e le novità che possiamo prevedere introduca la direttiva 29/2005/CE, dobbiamo ora considerare un tema di fondamentale importanza anche per la disposizione europea: i vizi del consenso.
Siamo nella situazione in cui l’ accordo è perfezionato, ma inficiato da un consenso formatosi “in maniera alterata o attraverso una manifestazione deviata”( ).
Senza dubbio, ciò che rileva ai fini della direttiva è la sua oggettiva alterazione per effetto di pratiche commerciali sleali.
Guardando alla normativa nazionale, il Codice Civile stigmatizza nell’ art. 1427 l’errore, la violenza e il dolo come vizi che, insistendo sulla fase di formazione del consenso, possono determinarne l’ annullamento. L’ adozione di tale rimedio deve essere contemperata all’ interesse della controparte nel senso che la parte incorsa nel vizio non sacrifichi interessi della controparte ritenuti dal legislatore prevalenti.
Il nostro ordinamento giuridico conosce due tipi di errore: errore – vizio ed errore – ostativo.
Il primo è contenuto nella fattispecie dell’ art. 1427 (“consenso dato per errore”, recita la disposizione codicistica); prende forma da una condizione di ignoranza o falsa rappresentazione della realtà nella quale incorre spontaneamente una parte, che si rappresenta mentalmente il contratto in maniera diversa da come esso è nella realtà.
Il secondo tipo viene menzionato nell’ art. 1433 c.c. la cui rubrica prefigura già la situazione di cui tratta: “Errore nella dichiarazione o nella sua trasmissione”. In questo caso il consenso risulta viziato in quanto l’errore cagiona una divergenza tra la manifestazione del consenso e la volontà reale della parte, dovuta ad una deviata esternazione o trasmissione dello stesso.
Continuando a scorrere la disciplina codicistica dei vizi del consenso si giunge all’ art. 1429. Si tratta dell’ “errore essenziale”. Per poter procedere con l’ annullamento, un requisito imprescindibile è proprio l’ essenzialità. Il legislatore, a tal proposito, ha previsto quattro casi:
1) “quando cade sulla natura o sull’ oggetto del contratto”
2) “quando cade sull’ identità dell’ oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso”
3) “quando cade sull’ identità o sulle qualità della persona dell’ altro contraente, sempre che l’ una o le altre siano state determinanti del consenso;
4) “quando trattandosi di errore di diritto, è stata la ragione unica o principale del contratto”.
Nei casi ai punti 2, 3 e 4, l’ errore si configura anche come “determinante”, nel senso che se la parte se ne fosse accorta non avrebbe concluso il contratto e , dunque, prestato il proprio consenso. Tale requisito, d’altronde, in via interpretativa, deve essere considerato in tutti i casi in cui l’interprete si trovi a dover valutare la manifestazione del consenso come elemento di rilevanza primaria “avuto riguardo al comune apprezzamento e alle circostanze”.
Tutto ciò considerato, l’ errore , per consentire l’ annullamento del contratto, deve innanzitutto risultare determinante per il contraente e oggettivamente essenziale nell’ economia dell’ affare, il che si verifica se in concreto ricade su uno dei profili indicati dagli artt. 1429 e 1430 c.c. e se in concreto tale aspetto rende oggettivamente determinante l’ errore avuto riguardo al “comune apprezzamento e alle circostanze”.
Ai fini della presente disciplina non ha rilevanza l’ errore sui motivi, categoria che abbraccia tanto la “falsa valutazione o previsione.
L’ aspetto che però si attaglia meglio alla disciplina della direttiva sono senz’altro le ipotesi di “dolo” e “violenza”.
L’ errore di un contraente può formarsi, anziché spontaneamente, per effetto dell’ inganno perpetrato dalla controparte o da un terzo. Tale circostanza influenza notevolmente la disciplina del vizio, che viene designato come dolo.
A tal proposito è sufficiente il carattere determinante dell’ errore cagionato da dolo per annullare il contratto. Questo rileva ex art. 1439 1° comma c.c. se, senza i raggiri della controparte, “l’ altra parte non avrebbe contratto”. In questa circostanza assumono rilievo anche gli errori che ricadono nella sfera dei motivi.
Nel caso in cui il dolo sia cagionato da un terzo si presenta l’ esigenza di tutelare l’ affidamento della controparte: recita il secondo comma dell’ art. 1439 che “il contratto è annullabile se essi (i raggiri, ndr) erano noti al contraente che ne ha tratto vantaggio”, posto che costui non deve incorrere nell’ ipotesi di affidamento colpevole per non aver osservato “la normale diligenza” avrebbe ai fini di un’ emersione della fattispecie di dolo.
Valutando attentamente la disciplina giuridica del dolo nell’ ambito dei vizi del consenso ci imbattiamo in questioni strettamente legate alla pubblicità ed al marketing, già oggetto di importanti interventi del legislatore comunitario.
4.2 – Pubblicità e pubblicità ingannevole

Le Direttive 85/450/CEE e 97/50/CE hanno predisposto una sorta di rifugio per il consumatore, assalito quotidianamente da un certo “marketing senza quartiere”, attraverso una disciplina relativa alla “pubblicità ingannevole” accompagnata da una tutela di tipo prevalentemente inibitorio.
Per pubblicità ingannevole viene intesa quella che “in qualunque modo induca in errore o possa indurre in errore le persone fisiche o giuridiche alle quali è rivolta o che essa raggiunge e che, a causa del suo carattere ingannevole, possa pregiudicare il loro comportamento economico ovvero che, per questo motivo, lede o possa ledere un concorrente”( ).
Tenendo conto delle nuove realtà presenti sul mercato e dei più recenti sviluppi normativi, il dolo può a ben vedere essere identificato come un comportamento oggettivamente idoneo a ingannare la parte e ad indurla in errore e proprio questo punto fornisce una prima giustificazione della direttiva oggetto del presente elaborato.
Le pratiche commerciali che vengono dalla direttiva 2005/29/CE ritenute “sleali” sono anche quelle che attraverso la pubblicità dei prodotti, orientano la scelta del consumatore. Questa, nella genesi di cui è stata protagonista nel corso degli anni, si è trasformata da mezzo strumentale all’ informazione del pubblico al quale è rivolta, a strumento di “persuasione” utile per orientare i consumi e far nascere nuove esigenze. Vengono intese troppo spesso esclusivamente per richiamare l’ attenzione su un determinato prodotto, sottolinearne dunque solo alcuni aspetti senza descriverne qualità, modalità d’uso, proprietà e così via. Per la maggior parte la pubblicità di oggi viene utilizzata dalle grandi imprese per orientare i consumi, stimolare i bisogni, promuovere l’ assorbimento della domanda. Secondo Chamberlin, l’ economista che per primo si occupò scientificamente del fenomeno pubblicitario, i metodi di réclame “non hanno niente a che fare con la conoscenza da parte del consumatore; non sono metodi informativi; sono delle manipolazioni. Creano un nuovo schema di bisogni mutando i motivi per i quali i compratori sono spinti ad acquistare”( ).

4.3 – La disciplina codicistica dei vizi del consenso e i criteri della Direttiva 29/2005/CE

Il problema della disciplina di talune pratiche commerciali non è quello di una loro completa eliminazione dal mercato, bensì, in taluni casi, di un forte contenimento in modo da proteggere il consumatore da vere e proprie “aggressioni mediatiche” che potrebbero illegittimamente influenzare le sue “decisioni di natura commerciale”( ).
L’ aggressività di una pratica commerciale viene vietata dalla direttiva stessa che enuclea una serie di casi in cui risulta sanzionbile. Il riferimento alla “violenza” in merito alla disciplina dei vizi del consenso, appare allora necessario.
La violenza morale è la minaccia di un male “ingiusto e notevole” (art. 1435 c.c.) per estorcere il consenso di una parte. Si pone il contraente dinnanzi alla scelta tra subire un male o stipulare il contratto e, volontariamente, sceglie come male minore di concludere il contratto.
Facendo attenzione a non forzare troppo la disciplina appena esposta, potremmo tentare un accostamento con quelle che la direttiva 2005/29/CE definisce “Pratiche commerciali aggressive”, cioè quelle “pratiche commerciali che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti o sia idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induca o sia idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso”(art. 8); prosegue il testo della direttiva con la prescrizione di valutare il ricorso a molestie, coercizione o indebito condizionamento prendendo in considerazione una serie di elementi quali:
a) “i tempi, il luogo, la natura o la persistenza”;
b) “il ricorso alla minaccia fisica o verbale”
c) “lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto”;
d) “qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista”;
e) “qualsiasi minaccia di promuovere un’azione legale ove tale azione non sia giuridicamente ammessa”.

Capitolo 5. Conclusioni

Concludendo, nonostante i tempi che l’ Unione Europea ha previsto per la ricezione della direttiva 29/2005/CE siano, come sempre accade, piuttosto lunghi ed al momento non si è riversata su questo intervento l’ attenzione della comunità giuridica, tenteremo di immaginare, cercando di non essere troppo audaci, come essa inciderà sulla disciplina consumeristica.
Appare fin d’ ora verosimile una sua trasposizione all’ interno del Codice del Consumo. Nelle intenzioni del legislatore delegato deve essere questo il primo riferimento ai fini dell’ educazione e della tutela del consumatore.
La direttiva in esame, dunque, andrà ad integrarlo e, non di meno, dovrà essere inserita nella sistematica del nostro ordinamento privatistico.
Ipotizzando tale opera del legislatore, appare verosimile prevedere una certa influenza che la norma europea eserciterà sulla disciplina dei vizi del consenso.
Come abbiamo avuto occasione di ricordare( ), sono le fattispecie del dolo e della violenza, perpetrate al fine di orientare il consenso della controparte, che meglio si attagliano al panorama della direttiva.
Pratiche commerciali sleali ed aggressive, configurano senza dubbio ipotesi che ricadono in questi due definiti ambiti. Pertanto, il professionista o l’ ente che pone in essere comportamenti atti “a creare una falsa impressione sulla natura dei prodotti”( ), o “mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, limiti considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto lo induca ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe preso”( ), pone in essere una condotta sleale condizionando ed orientando indebitamente il consumatore.
Prevedendo pratiche commerciali sleali suddivise in due ambiti, l’ uno relativo a quelle “ingannevoli”( ), l’ altro a quelle “aggressive”( ), il legislatore europeo sembra ripercorrere il sentiero che già aveva tracciato quando si era occupato, con la direttiva 93/13/CEE, della vessatorietà delle clausole nei contratti del consumatore stabilendo criteri per ritenerne alcune “vessatorie fino a prova contraria”, altre “vessatorie in ogni caso”.
A tal proposito, nell’ allegato I della direttiva si elencano, con una partizione tra quelle ingannevoli e quelle aggressive, le “pratiche commerciali considerate in ogni caso sleali”, che cioè prescindono da un accertamento caso per caso, debitamente circostanziato. Risulta evidente la sistematica assonanza, rispettivamente, con gli artt. 1469 bis, 3° comma, c.c. e 1469 quinquies, 2° comma, c.c. .
La disciplina dei contratti del consumatore, d’ altronde, si valuta alla stregua di regola a cui professionisti imprese ed enti devono attenersi nella fase di definizione del contenuto normativo dell’ accordo con il nostro soggetto di riferimento e, benché la direttiva insista su aspetti collocabili anche in questo momento contrattuale, appare evidente che l’ attenzione si concentri su una fase finora scarsamente regolamentata. Quella, appunto, dei modi e delle pratiche che inducono i soggetti a configurare vantaggiosa e meritevole l’ adesione ad un contratto proposto anche per mezzo di canali di comunicazione e con tecniche che, oggi sempre più copiosamente, investono la sfera privata dei cittadini.
Non stiamo a trattare solo della pubblicità, ma ci riferiamo soprattutto a strategie di marketing originate da anni di ricerca e studio della psicologia consumeristica.
Sono proprio queste considerazioni che estendono la disciplina dei vizi del consenso al di fuori dell’ ambito strettamente contrattuale e, alla luce di un criterio di buona fede oggettivo sempre più cardinale all’ interno del mercato comune europeo, monitorano lo svolgersi dei traffici commerciali preservando i soggetti più deboli da indebiti condizionamenti.
Applicando una sorta di “principio di precauzione” anche in ambito strettamente privato, il legislatore europeo vuole che gli ordinamenti giuridici degli stati membri si fregino di una serie considerevole di prescrizioni finalizzate a ridurre la forbice dell’ asimmetria informativa tra professionisti e consumatori, consentendo a questi ultimi scelte più consapevoli, statuendo erga omnes specifiche regole di comportamento che ad oggi trovano cittadinanza, per lo più, esclusivamente nelle normative ad adesione volontaria.
Insomma, per poter rimanere sul mercato e partecipare ad un innalzamento del suo livello di efficienza, gli addetti ai lavori devono riuscire a trovare nella regola della correttezza e in un’ accresciuta professionalità il volano della propria crescita.
L’ Europa è una grande opportunità per tutti, per poterne trarre un massimo vantaggio occorrono la forza ed il coraggio di abbandonare certe ideologie troppo spesso causa di un cronico arretramento delle nostre imprese e di un deleterio sfruttamento dei consumatori, circostanze, queste, che portano molti nostri partners europei a guardare all’ Italia soltanto come il Bel Paese del sole e degli spaghetti.

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