Italia: le rappresaglie della mafia
In Italia, le minacce provengono dalla mafia, o piuttosto dalle mafie che operano nel sud del Paese: la Camorra a Napoli, la ‘ndrangheta in Calabria, Cosa Nostra in Sicilia e la Sacra Corona Unita in Puglia. Dieci giornalisti nel Paese lavorano sotto la protezione della polizia. La Calabria e la Sicilia sono le due regioni più pericolose per i professionisti dell’informazione che osano criticare i capi mafia. Le minacce, le lettere anonime, le auto danneggiate, le gomme tagliate non si contano più. Tutti i giornalisti che si occupano di questioni giudiziarie o che scrivono sulle attività mafiose hanno ad un certo punto ricevuto un messaggio, un segnale che faceva loro capire che erano ormai sotto sorveglianza, seguiti, controllati.
Lirio Abbate, 38 anni, corrispondente a Palermo dell’agenzia di stampa Ansa, è il caso più emblematico di questa situazione. Il 2 settembre 2007, è stato vittima di un tentato omicidio. Due uomini sono stati scoperti mentre sabotavano la sua auto. I poliziotti responsabili della sua protezione hanno sorpreso in piena notte due sconosciuti che stavano collocando un ordigno sotto la vettura del giornalista. Questo tentativo di assassinio è stato organizzato pochi giorni dopo il ritorno a Palermo di Lirio Abbate e dopo mesi di minacce profferite contro di lui per la pubblicazione del suo libro, “I Complici”, nel quale analizza le connivenze tra il mondo politico e la mafia.
A Palermo, incontriamo Lirio Abbate nel suo ufficio. Accende subito la televisione ed alza il volume. Solo in seguito incomincia a parlare con un tono di voce piuttosto basso. E’ sotto scorta 24 ore su 24. Due guardie del corpo lo accompagnano continuamente, durante ogni suo spostamento, e sorvegliano il suo domicilio durante la notte. “Certo, la presenza delle guardie del corpo complica il mio lavoro. Devo trovare modi alternativi per trovare le informazioni. Non posso più andare solo per strada come facevo prima ed incontrare le mie fonti, la gente in tutta tranquillità. Preferisco tuttavia essere protetto”.
Lirio Abbate è molto esposto ai rischi. Innanzitutto perché lavora per l’Ansa, un’agenzia di stampa. Il suo lavoro è ripreso dall’insieme dei media del Paese. Abbate è un giornalista ma anche una preziosa fonte di informazioni per tutti i colleghi che lavorano sul crimine organizzato. Nel mese di ottobre 2007, il capo mafia, Leoluca Bagarella, l’ha minacciato pubblicamente in aula, durante un processo. “Da allora, lo ammetto, sono preoccupato. Bagarella ha mandato dal carcere un messaggio ai suoi complici facendo chiaramente il mio nome. E’ in prigione dal 1995 e visto che lavoro per un’agenzia di stampa e che non firmo i miei pezzi, come faceva a sapere che sono l’autore degli articoli ‘incriminati’? Non voglio lasciare la Sicilia ma forse un giorno sarò costretto a farlo”.
Per lui, esattamente come per gli altri giornalisti incontrati in Sicilia, la situazione non migliora. Il periodo cruento delle uccisioni politiche, all’inizio degli anni ’90, pare essere chiuso, ma la mafia sembra oggi interessarsi sempre più ai giornalisti. “Da dieci, quindici anni, i capi mafia sono cambiati. Non si tratta più di contadini, di uomini delle campagne. Oggi, sono medici, uomini politici, persone che hanno studiato, laureati. Sanno a che punto l’informazione sia importante e per questo motivo cercano di manipolarla. La violenza è solo la punta dell’iceberg. I giornalisti possono anche cedere alle pressioni, essere corrotti e comprati”.
Per il giornalista di Palermo, il professionista dell’informazione siciliano non si espone ai rischi solo perché scrive di mafia: “Citare il nome di una persona dicendo che appartiene alla mafia non è rischioso. Al contrario, spesso questo lusinga i capi mafia. Ma se il giornalista incomincia a parlare delle attività del boss in questione, ad analizzarle, se spiega come questo gestisce il suo giro d’affari ed accumula ricchezze, allora sì: si sente minacciato e punisce”.
Lirio Abbate sceglie meticolosamente i luoghi che frequenta, le persone che incontra. Perfino i caffé dove si reca sono selezionati con cura. Quando esce dal suo ufficio, sempre accompagnato dalle sue due guardie del corpo cammina a lungo prima di entrare in un caffé. Non entra mai in quello più vicino alla redazione: “E’ stato finanziato con i soldi della mafia”, rivela, sorridendo.
Lo scrittore e giornalista Roberto Saviano, 28 anni, autore del libro “Gomorra”, vive una situazione simile. Vive nascosto, sotto la protezione della polizia dal mese di ottobre 2006, a causa delle minacce a lui rivolte dopo la pubblicazione del suo libro sulla camorra.
Nino Amadore, autore di un altro libro sulla mafia “La zona grigia”, ha visto la sua auto danneggiata a più riprese, i pneumatici tagliati subito dopo alcune presentazioni pubbliche del libro, in Sicilia. “Questi fatti non sono molto gravi, ma rappresentano dei segnali. Già nel 1990, quando, studente all’università di Messina, scrivevo per il quotidiano La Sicilia, dormivo con un coltello sul comodino. Oggi vivo in un quartiere popolare di Palermo e, a volte, mi dico che potrebbe succedermi qualcosa”.
Il giornalista, oggi corrispondente a Palermo per il quotidiano Il Sole 24 Ore, dice che non si autocensura mai, anche se le pressioni sono spesso molto forti. “Un giorno, all’inizio degli anni ’90, mio padre mi disse: ‘Quando smetterai di scrivere tutto questo? Tu vai a vivere a Milano, noi rimaniamo qui.’ Poco dopo, alcune persone sono venute nella nostra casa di campagna per tagliare delle giovani piante di ulivo, un segnale intimidatorio forte e chiaro.”
Secondo Nino Amadore, la situazione è ancora più grave nelle campagne dove la mafia è onnipresente.
Giuseppe Maniaci, è il direttore di un’emittente locale, Telejato, a Partinico (circa 40 km a ovest di Palermo). La città è controllata dalla famiglia Vitale, un clan mafioso molto influente nella regione. “Mandiamo in onda numerosi servizi contro la mafia. Negli ultimi anni abbiamo avuto 40 pneumatici tagliati, auto danneggiate, abbiamo ricevuto lettere intimidatorie e telefonate minatorie”, racconta Giuseppe Maniaci. Ancora più grave, alla fine del mese di gennaio, il direttore di Telejato è stato aggredito da un giovane della famiglia Vitale, 16 anni, e da un suo compagno.
“Da anni ormai mandavamo in onda reportage sull’esistenza di costruzioni immobiliari illegali gestite ed occupate dalla mafia. Alla fine, le autorità locali hanno predisposto la distruzione di questi immobili. Poco tempo dopo, ho incrociato per caso a Partinico il figlio Vitale, Michele. Ha cercato di strozzarmi con la mia cravatta, poi ha bloccato la mia gamba con la porta della mia auto. Mi ha ripetutamente colpito, aiutato dal suo amico…” Da allora, Giuseppe Maniaci è sotto scorta. E, quando si reca nella vicina Corleone, deve avvertire la polizia locale che l’accompagna durante i suoi spostamenti nella città.Sua moglie, Patrizia, l’aiuta con il figlio Giovanni, 20 anni, e la figlia di 23, Letizia. La più piccola, Simona, ha solo 14 anni. “Ma sa già usare la telecamera”, spiega suo padre. “Dopo l’aggressione, abbiamo fatto una riunione di famiglia per decidere se dovevamo continuare il nostro lavoro o interromperlo. I miei figli mi hanno detto che potevo anche andare a riposarmi, si sarebbero occupati loro della televisione e avrebbero continuato loro con Telejato.”
Giuseppe Maniaci non vuole cedere ai ricatti : “Certo, abbiamo paura. Chi ha detto che non abbiamo paura? Ma oggi sarebbe più pericoloso smettere di lavorare che continuare. Se smetto, sarei disarmato. E la mafia non dimentica.”
A Corleone (60 km a sud di Palermo), Dino Paternostro lavora nell’amministrazione ospedaliera della città. Ma è anche un giornalista, collaboratore volontario di diversi organi di stampa della regione. “La mia attività giornalistica è frutto del mio impegno civile. Lavoro solo e non ho una redazione che possa proteggermi. Desidero sviluppare la cultura della parola in una regione dominata dal silenzio e dall’omertà”.
Nel 1991, la redazione del suo giornale Città Nuove è stata incendiata. Da allora, ha effettuato una lunga ricerca storica sulle origini della mafia locale e ha pubblicato un libro “I Corleonesi”. Vi analizza la gestione del potere da parte dei capi mafia della città, e la successione dei sanguinosi « colpi di stato » interni che hanno caratterizzato Corleone.
Il 28 gennaio 2006, alle quattro del mattino, la polizia l’ha svegliato per informarlo che la sua auto era in fiamme. Da allora, ha ricevuto varie telefonate notturne mute. Un’inchiesta ufficiale è in corso. “Visto che la mafia è implicata, questa inchiesta non darà alcun risultato. Tutti lo sanno”.
In Calabria, i professionisti dell’informazione sono forse ancor più vulnerabili di fronte alle pressioni. I media sono meno potenti che in Sicilia, meno strutturati, e la ‘ndrangheta è più discreta, più difficile da analizzare, circoscrivere, arginare.
Per Concetta Guido, collaboratrice di Il quotidiano della Calabria, i giornalisti locali sono spesso portati ad auto-censurarsi. A volte, gli inviati speciali delle grandi redazioni nazionali o gli inviati stranieri possono con più facilità e libertà fare delle inchieste sul crimine organizzato locale. “Affrontare la realtà mafiosa della ‘ndrangheta è un lusso molto rischioso per i professionisti dell’informazione calabresi”.