I notiziari online e i blog si sono popolati in questi giorni di news i cui titoli suonano tutti più o meno così: “la pirateria si aggiorna, tramontano i torrent, arrivano i cyberlocker”.
Il tutto in seguito a una classifica pubblicata da torrentfreak.com su dati Google, che designa i primi dieci siti di file sharing più frequentati al mondo. Dall’indice si apprende che ai primi posti si piazzano 4Shared, Megaupload, Mediafire, Rapidshare e così via: servizi di storage online che permettono a chiunque di memorizzare e mettere in condivisione qualsiasi tipo di file, coperto o meno da copyright. Cassaforti virtuali, ovvero, appunto, cyberlocker. Mettere a confronto questo tipo di siti con meta-search engine o indici di file torrent come Torrentz.eu o The Pirate Bay non appare proprio corretto, così come appare incoerente la presenza in classifica di FilesTube, che non è un cyberlocker ma un servizio di ricerca per cyberlocker. E il vero problema non sono nemmeno i presunti rischi legati alla pirateria, dato che tutti i siti “incriminati” si sono già tranquillamente dichiarati disponibili a rimuovere, a richiesta, i contenuti coperti da copyright. Cosa che sarà immensamente più facile rispetto alla prospettiva di perseguire i milioni di nodi di una rete peer-to-peer. Il vero interesse della notizia risiede in realtà proprio nella tendenza che rivela, a favore della “filosofia” della rete che sottende i servizi di storage online rispetto a quella che ha ispirato a suo tempo la nascita di software come BitTorrent. E’ ancora una volta la rivincita del “centralizzato” rispetto al “diffuso”, dell’architettura basata su pochi ma potenti punti critici rispetto alla moltiplicazione di tanti piccoli nodi a bassa intensità. Se infatti l’idea rivoluzionaria del sistema di condivisione via torrent era stata proprio quella di trasformare ogni punto della rete in un server e ogni linea in un canale di condivisione, sulla base di un sistema paritario (da qui il termine peer-to-peer) che è in grado di sfruttare appieno la topologia reticolare e autoconfigurante di internet, l’approccio controrivoluzionario dei cyberlocker è un po’ come il ritorno al passato dei “mainframe”, dove immense server farm diventano la sorgente unica dalla quale dipendono milioni di utenti informaticamente “stupidi”. E’ del resto l’ideologia alla base del (moderno?) cloud, secondo la quale ognuno di noi dovrebbe rinunciare ad essere nodo della rete per tornare ad essere terminale, spostando tutto ciò che rappresenta la nostra identità digitale in magazzini virtuali situati chissà dove e, soprattutto, sotto il controllo di non si sa chi. Non sfuggirà a chi ha vissuto tutta l’evoluzione di internet, dagli albori ad oggi, che questa tendenza non può che essere interpretata come una regressione. In nome del business, si rischia di trasformare la rete in qualcosa di profondamente diverso, magari più facile da usare (è indubbio che usare Rapidshare o simili richieda meno competenza informatica rispetto a un client BitTorrent) ma anche decisamente meno libera e più controllabile da parte dei soliti noti. Non a caso Google, nell’ambito della sua strategia sempre più orientata al cloud, ha deciso di aprire il suo servizio di storage online, Google Docs, a qualsiasi tipo di file, trasformandolo di fatto in un cyberlocker. Nell’era dell’internet di massa, la battaglia per il controllo della rete è appena cominciata, e passa anche dal possesso dei nostri file. (E.D. per NL)