Che l’era dello streaming stia succedendo a quella del download pare ormai una certezza, sia nel campo del video che della musica.
Il problema dei nuovi servizi online sembra però essere quello di trovare il modo di generare profitti mantenendo sufficiente appeal verso i propri utenti e tenendoli così lontani da tentazioni illegali. I costi di licenza ovviamente pesano, e i ricavi provenienti dai servizi premium non sembrano essere sufficienti a sostenere i bilanci. Emblematico il caso di Pandora, leader delle web radio statunitensi, che continua a perdere valore in borsa nonostante la crescita stratosferica di utenti (+62%) e ore di ascolto (+92%) nel 2011 rispetto all’anno precedente. E proprio i problemi di licenza (come nel caso Netflix sul versante video) sono all’origine del (finora) mancato sbarco del gigante dello streaming in Europa, dove realtà concorrenti come Spotify e Deezer ne stanno approfittando per accaparrarsi quote di mercato. La capacità di attrarre nuovi utenti si gioca più che altro sull’ampiezza dell’offerta e sul fronte delle funzionalità social (quando non si tratta di vere e proprie partnership come quella Spotify-Facebook). Ma la vera sfida è quella di riuscire a monetizzare in qualche modo l’enorme mole di accessi generata dai servizi free. Sul versante della pubblicità, infatti, non sembra esserci molta convinzione da parte degli inserzionisti a investire in un settore le cui prospettive di espansione vengono ancora viste con una certa diffidenza. Una cautela condivisa da diversi artisti di chiara fama, che si rifiutano di cedere i diritti di streaming sostenendo che questo tipo di diffusione non genera introiti sufficienti e porta nel contempo a una riduzione delle vendite di dischi. D’altra parte recenti sondaggi affermano che gli utenti, in massima parte, preferiscono ancora pagare per “possedere” la musica, piuttosto che per fruirne come servizio on demand. Allo stesso tempo lo streaming è considerato lo strumento principe di conoscenza e ascolto preventivo, ai fini di un possibile successivo acquisto. Non per niente i canali tematici musicali, ormai in crisi sulle tradizionali piattaforme televisive, stanno migrando su YouTube. Lo stesso amministratore delegato di Spotify, Daniel Ek, afferma che i dati dimostrano che lo streaming non solo non fa diminuire le vendite degli album, ma addirittura le favorisce. Visioni contraddittorie, quindi, o forse solo culturalmente differenziate, di uno scenario in rapida evoluzione. Anche in questo caso i nuovi modelli di fruizione adottati dagli utenti della rete pongono sfide non facili a chi sceglie di fare business nel mondo dell’intrattenimento digitale. (E.D. per NL)