Si moltiplicano i segnali di cambiamento nel modello di offerta che gli internet provider propongono ai propri utenti.
In tempi recenti ha fatto discutere l’intenzione manifestata da Telecom Italia di far ricorso al network management, ovvero alla limitazione temporanea e arbitraria di determinate applicazioni ad elevato consumo di banda (tipicamente lo streaming e il peer-to-peer), onde evitare la congestione della rete e il breakdown dei servizi considerati fondamentali per tutti gli utenti (navigazione, posta elettronica). Ora è AT&T, colosso delle telecomunicazioni USA, ad annunciare di voler applicare limiti alla capacità di download dei propri utenti di rete fissa (dopo aver già utilizzato criteri simili sulla rete mobile): 150 GByte al mese per i collegamenti DSL, 250 per la fibra ottica. Chi vorrà scaricare di più dovrà pagare un supplemento. Il motivo è ufficialmente sempre lo stesso: evitare il collasso della rete e tutelare i servizi fondamentali. Si tratta in realtà di strategie affatto diverse: quella dell’operatore italiano, piuttosto ambigua sul piano dei criteri dichiarati, potrebbe avere riflessi importanti ma ancora non quantificabili sulla net neutrality, mentre il modello della compagnia statunitense sembra essere più trasparente e non implicherebbe filtri a livello applicativo, anche se è evidente che, impattando sui servizi che comportano il maggior carico in download, andrà ancora una volta a limitare l’uso dei già citati streaming e p2p. Pare ormai chiaro che il settore sia giunto a un punto di svolta, nel quale le compagnie di telecomunicazioni non sembrano essere più disposte a investire sulle reti di nuova generazione senza un ritorno direttamente proporzionale alla banda offerta, che dovrà arrivare da chi quella banda utilizzerà in misura maggiore: gli utenti da una parte, i fornitori di servizi cosiddetti over the top dall’altra. Su quest’ultimo fronte, le telco fiutano la possibilità che il settore del video on demand via internet possa fare seriamente concorrenza alla tv broadcast tradizionale, e sanno di avere il coltello (la banda) dalla parte del manico. Perciò la politica attuale è quella di far pressione affinché i fornitori di servizi applicativi ad alto consumo di banda contribuiscano agli investimenti per far crescere la rete, di cui oggi si servono praticamente a costo zero. Ma, come fa notare Tim Berners Lee, l’inventore del World Wide Web, in un suo recente intervento sul futuro di internet, la commistione di interessi tra soggetti che stanno ai diversi livelli della struttura della rete può portare a snaturarne la neutralità e a creare discriminazioni culturali e sociali sulla base di mere regole di mercato. E’ qui che i regolatori pubblici possono essere chiamati in causa e aspirare a un ruolo efficace nell’evolversi della situazione. FCC, negli USA, si è già dovuta pronunciare in favore del principio di neutralità, ma le sue decisioni sono state oggetto di polemica, in quanto considerate indebite interferenze sulle dinamiche di mercato. Nell’Unione Europea le nuove direttive in materia di comunicazione elettronica fanno della net neutrality uno dei punti cardine della disciplina regolatoria: il recepimento dovrà essere effettuato a breve anche nel nostro paese, e a questo proposito l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni si è fatta recentemente promotrice di consultazioni pubbliche sull’argomento. L’equilibrio che finora ha tenuto in vita l’“internet senza limiti” è sicuramente in crisi. Occorrerà trovarne uno nuovo, se non vogliamo rinunciare a credere nel sogno della rete come grande strumento di emancipazione sociale e democratica. (E.D. per NL)