Studio Cataldi – Newsletter 16 – 22 dicembre 2008
Roma, 20 dic. (Adnkronos) – Basta il nome puntato per violare la privacy di qualcuno sul web. Lo sottolinea una sentenza della Cassazione che ha condannato a sei mesi di reclusione, oltre a seimila euro di risarcimento, un 32enne romano che, “per sbeffeggiare” una ragazza ”che aveva cambiato atteggiamento nei suoi confronti”, nel gennaio 2001 aveva aperto una casella di posta elettronica con “una dicitura di fantasia”, mettendo il nome puntato della donna con il suo numero di cellulare. Il giovane era già stato condannato dal Tribunale di Roma, nel novembre del 2005, per il reato punito dalla legge 675 del ’96 a tutela della privacy e per molestie (otto mesi di reclusione, sospesi con la condizionale oltre ad un risarcimento di 10mila euro) dal momento che gli utenti del web, lette le offerte contenute nella casella posta elettronica, contattavano la vittima sull’utenza telefonica indicata, arrecandole disturbo o molestia. La pena si è alleggerita davanti alla Corte d’appello della capitale, lo scorso maggio (sei mesi di reclusione e 6mila euro di risarcimento danni alla vittima). Contro la condanna, la difesa si è rivolta alla Cassazione sostenendo che il giovane “aveva immesso in rete una sola pagina grafica contenente il numero di cellulare, ma non i suoi dati personali visto che il numero di utenza cellulare era svincolato da riferimenti anagrafici”, essendo stato inserito solo il nome puntato della ragazza, senza cognome, e che era stata aperta una casella di posta elettronica “con indirizzo di fantasia”, dunque, non raggiungibile da chi non conosceva l’indirizzo”. Piazza Cavour (Terza sezione penale, sentenza 46206) ha dichiarato inammissibile il ricorso e ha evidenziato che il D.L.vo 467 del 2001 in aggiornamento della legge sulla privacy definisce “come dato personale qualunque informazione relativa a persona fisica, persona giuridica, ente o associazione, identificati o identificabili, anche indirettamente, mediante riferimento a qualsiasi altra informazione, compreso un numero di identificazione personale” come il cellulare che, unitamente all’indicazione del nome puntato, rende “identificabile” la persona presa di mira. Per l’inammissibilità del ricorso, il 32enne è stato anche condannato al pagamento di 1000 euro alla cassa delle ammende, oltre alla rifusione delle spese processuali sostenute in Cassazione dalla vittima della ritorsione per un importo pari a 2.230 euro.