Internet: il diritto all’oblio e il falso mito della neutralità dei search engine

Conciliare il diritto all’informazione con quello alla privacy delle persone: un compito che non è mai stato facile per chi lavora nei media, ma che nell’era di internet rischia di diventare un problema insormontabile.

L’ultima sentenza della Corte di Giustizia dell’UE, che risponde ad una serie di pregiudiziali sull’interpretazione della normativa europea in materia, e di fatto impone a Google di de-indicizzare i contenuti di un sito contenente informazioni ritenute lesive della reputazione di un cittadino spagnolo, porta innanzitutto alla luce un conflitto che è ormai ineludibile. Ovvero quello tra una normativa europea sulla privacy risalente al 1995 e la sempre più ingombrante presenza, vent’anni dopo, degli immensi meta-archivi costruiti dai motori di ricerca indicizzando tutti (o quasi) i contenuti presenti sulla rete mondiale. Il principio del “diritto all’oblio” contrapposto alla micidiale persistenza della memoria globale. Ma non è solo una questione di aggiornamento legislativo, tra le tante che la rivoluzione digitale pone alla nostra attenzione. Nel riconoscere ai search engine il ruolo di “responsabili del trattamento dei dati”, anche se questi sono presenti in siti terzi, la Corte infatti ne legittima la centralità non solo nell’indirizzare, ma di fatto nel consentire l’accesso a dati che altrimenti, pur presenti nella rete, rimarrebbero non consultati perché di fatto non raggiungibili se non tramite riferimento diretto. In pratica si afferma il principio per cui non essere indicizzati equivale ad una sostanziale non-esistenza. Un’affermazione che può essere più o meno condivisa, ma che in ogni caso riporta alla luce interrogativi (non nuovi, ma mai abbastanza dibattuti) sul potere di gestione e selezione delle informazioni nell’era di internet. Non sfugge a nessuno infatti come la rete sia ormai diventata la più sfruttata fonte di notizie e approfondimenti su ogni tipo di soggetto o di evento presente in un mondo pressoché totalmente interconnesso. La crescita quantitativa dei dati archiviati, con i suoi numeri esponenziali, ha reso ormai imprescindibile l’utilizzo di strumenti di selezione, categorizzazione e gerarchizzazione delle informazioni. A questa esigenza hanno risposto i vari Google, Bing, Yahoo, costruendo in poco tempo una sovrastruttura che, grazie al potere degli algoritmi di indicizzazione, ha gradualmente reso trasparente il proprio ruolo di mediazione e si pone ora (almeno per quanto riguarda Google) come il principale, se non unico, strumento di interazione con la rete per la grande maggioranza dei suoi utenti. L’assunzione di un ruolo pubblico così importante non ha però sempre portato con sé la trasparenza che ci si sarebbe aspettati, soprattutto riguardo i criteri utilizzati per selezionare e ordinare i contenuti che ci vengono presentati nelle ormai consuete pagine di risposta alle nostre ricerche online. Alchimie che sono note, parzialmente e per via induttiva, solo ai guru della search engine optimization, ma sulla cui effettiva ottimizzazione rispetto alla “rilevanza” dei risultati si potrebbe discutere all’infinito. Se quindi i motori di ricerca sono di fatto l’unico strumento che ci permette di decodificare la Babele di internet ed estrarne ciò che ci interessa, la derubricazione di un sito o di un contenuto qualsiasi dagli indici di fatto equivale alla cancellazione, all’obliterazione digitale di quel sito o contenuto. La Corte di Giustizia UE non ha fatto che enunciare questo principio, sancendo il diritto di un qualsiasi individuo a rivolgersi a chi di fatto detiene il potere di rendere o meno disponibili le informazioni ai miliardi di navigatori dell’oceano digitale. La sentenza ha scatenato prevedibili reazioni di segno sostanzialmente opposto: da una parte chi plaude all’affermazione del diritto all’oblio digitale, o almeno ad una forma qualsiasi di controllo sui propri dati da parte dei cittadini; dall’altra chi esprime forti perplessità sull’attribuzione ai motori di ricerca del potere discrezionale di decidere la prevalenza del diritto individuale alla privacy rispetto all’interesse pubblico di avere un’informazione completa e senza censure. Paradossalmente però nessuno sembra avere interesse a spostare i termini della questione sul punto focale, ovvero: qual’è il livello di qualità e completezza dell’informazione che ci viene effettivamente fornito dal meta-testo costruito dal nostro motore preferito? Non possiamo ignorare che ci sono contenuti che non vengono affatto indicizzati da Google, Bing o chi per loro, per motivi che fondamentalmente ignoriamo e che per in-completezza non ci vengono affatto comunicati, pertinendo comunque alle scelte di business dei suddetti Over-The-Top. E ci sono informazioni la cui “rilevanza”, giudicata da algoritmi misteriosi e rigorosamente coperti da copyright, risulta talmente bassa che la probabilità che un utente qualsiasi le ritrovi nella decimillesima pagina dei risultati è pari praticamente a zero. La discrezionalità, in altre parole, è già largamente applicata da chi decide quali risposte dare alle nostre ricerche, e non ci è dato conoscerne i meccanismi e le scelte operate. Il fatto che si tratti di meccanismi software e di scelte motivate da algoritmi non sposta la questione, ma rappresenta invece il principale motivo di preoccupazione per chi sarà chiamato a rispondere alle prossime, prevedibili richieste di rimozione dagli indici. Se infatti gli attuali automatismi sono in grado di gestire efficacemente e autonomamente i risultati delle ricerche in base alle esigenze di business decise dal management degli OTT, inevitabilmente per operare scelte “estranee” che derivano da istanze esterne di rimozione si dovrà allestire tutto un apparato burocratico dedicato a ciò, con conseguente levitazione dei costi. In sostanza, Google e co., piuttosto che essere insofferenti alla selezione dei contenuti, sono insofferenti ad ogni ingerenza esterna che ne intacchi l’autonomia e li costringa a modificare in qualche modo le proprie strategie per motivi non strettamente inerenti la mission aziendale (ovvero realizzare profitti grazie all’indicizzazione di internet). In più, il grande clamore suscitato dalla decisione della Corte UE, e gli occhi dei media puntati sulle prossime richieste di rimozione e sul loro esito, non potranno che influire sulla reputazione “neutrale” dei grandi motori e di conseguenza della rete, erodendo il mito di internet come “il” luogo della libertà di informazione, che tanto ha contribuito negli ultimi anni a decretare il successo del web nei confronti dei media tradizionali. Per difendere questa reputazione, sulla quale in larga parte si basa il loro successo, Google e compagni si batteranno con le unghie e con i denti, ergendosi a paladini dei grandi principi della libertà di espressione e del diritto ad essere informati, ma molto più prosaicamente si tratterà di una battaglia per mantenere “in casa” e senza interferenze il fondamentale potere di decidere chi e cosa debba essere “rilevante” per gli utenti della rete. (E.D. per NL)
 

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