La doppia natura del social network in questo momento più di moda, Twitter, sta portando alla ridefinizione del ruolo dei giornalisti e delle testate di news.
Primo ad essere sfruttato è stato l’aspetto social vero e proprio: così come milioni di aziende in tutto il mondo, anche i marchi dell’informazione hanno cominciato a capire le potenzialità del network dei “cinguettii” a fini di marketing o anche solo per farsi conoscere di più, magari oltre il proprio tradizionale bacino di utenza. Così sono nate vere e proprie policy che dettavano ai dipendenti-giornalisti le regole da seguire per registrare account aziendali, scrivere e condividere in rete. Naturalmente, a seconda degli orientamenti editoriali, la disponibilità verso i nuovi modi di comunicare poteva essere più o meno ampia e approfondita. Ciò che però ha veramente spiazzato redazioni e agenzie di stampa è stata la mutazione che, dalla primavera araba in poi, ha portato Twitter a ripensarsi come vero e proprio network di informazione “dal basso”. E così i giornalisti, che fino a poco tempo prima usavano il social media più che altro per farsi conoscere, discutere e approfondire il proprio lavoro, hanno cominciato a usare i 140 caratteri come fonte di notizie, andando a pescare nel mare magnum dei quasi 500 milioni di account quell’informazione in diretta e in tempo reale che le agenzie non erano in grado di dare con altrettanta immediatezza e dettaglio. L’affannosa ricerca del primato nel dare la notizia rispetto ai concorrenti ha presto però mostrato i limiti di un approccio basato solo sulla velocità. Grazie ad alcune significative “bufale” originate dai tweet, si è presto capito che non si poteva prescindere da un minimo di verifica delle fonti, tanto che persino i responsabili del network hanno iniziato ad attrezzarsi in tal senso, palesando peraltro l’intenzione di entrare nel business dell’informazione “seria”. Nel frattempo l’affollamento di giornalisti e testate su Twitter è andato esponenzialmente aumentando, così come la circolazione delle notizie, delle dichiarazioni e dei “re-tweet” in una sorta di reazione a catena, tipica della rete, che ha cominciato a porre qualche problema al business delle news. In sostanza, si stanno riproducendo le stesse condizioni che hanno portato le major della musica e del cinema a fare le barricate contro internet: cambia la merce (qui la notizia, là la produzione cinematografica o discografica) ma non l’oggetto del contendere: come proteggere la proprietà intellettuale nell’era dell’apertura e condivisione dei contenuti generata dalla rete. Così le policy sono diventate un po’ meno “social” e un po’ più “blindate”: mai dare la notizia su Twitter prima che sulla testata di appartenenza; non re-twittare messaggi provenienti da media concorrenti; limitare le opinioni personali, e via piantando paletti e costruendo steccati nel meraviglioso mondo dell’informazione “aperta”. L’ultimo caso salito agli onori della cronaca è stato quello del giornalista Francesco Goria di “Linkiesta” accusato dall’agenzia Reuters di diffondere in anticipo via tweet notizie riservate ai clienti abbonati ai propri servizi. L’accusa è stata poi ritirata, ma il fatto è sintomatico di quanto, anche nel campo dell’informazione online, si debba ancora lavorare per trovare il giusto punto di equilibrio tra esigenze di business e nuove forme di comunicazione. (E.D. per NL)