Il primo febbraio di quest’anno, senza grandi clamori, sono stati assegnati dalla IANA (Internet Assigned Numbers Authority) gli ultimi segmenti di indirizzi IP aderenti allo standard cosiddetto “v4”.
E’ grazie a questo sistema di indirizzamento, opportunamente tradotto per noi umani nei più famigliari “www…” che qualsiasi computer, server o router collegato alla rete riesce a interconnettere tutti gli altri. Lo standard finora adottato consentiva di assegnare “solo” 4,3 miliardi di indirizzi univoci: all’alba della rete questo poteva sembrare un numero rispettabile, ma dopo anni di sviluppo esponenziale del web si è rivelato essere un insuperabile collo di bottiglia. Per fortuna la soluzione è pronta da tempo, si chiama IPv6: un nuovo protocollo che garantisce la possibilità di gestire un numero di indirizzi univoci che arriva a 39 cifre (o se preferite alle migliaia di trilioni di trilioni di trilioni…). Compagnie di telecomunicazioni e internet provider sono al lavoro da anni per cercare di garantire un passaggio indolore e per quanto possibile trasparente dal vecchio al nuovo standard. Un primo test globale è già stato effettuato lo scorso 8 giugno, con buoni risultati e senza grossi scompensi. Ma l’impresa non si presenta facile: i due protocolli sono infatti assai diversi, e nonostante tutte le apparecchiature più recenti siano già in grado di funzionare con IPv6, potrebbero crearsi problemi con l’aggiornamento dei software e delle competenze necessarie a gestire le nuove strutture di dati in transito sulla rete. L’attenzione degli esperti si sta concentrando soprattutto sugli aspetti relativi alla sicurezza. In teoria IPv6 garantisce, tramite il protocollo integrato IPSEC (che in IPv4 era solo opzionale) comunicazioni più sicure e affidabili rispetto al suo predecessore. Tuttavia alcune delle novità introdotte, allo scopo di facilitare la configurazione automatica delle reti e dei dispositivi, potrebbero configurare nuove vulnerabilità, sfruttabili in modo potenzialmente assai dannoso dagli onnipresenti malintenzionati. A ciò si aggiunge la necessità di un ripensamento di tutte le strategie di protezione, che dovranno essere riprogettate a partire dalle caratteristiche del nuovo protocollo e implementate su tutti i dispositivi di gestione della rete su scala globale. Se le politiche di sicurezza su IPv4 sono ormai consolidate da anni di studi ed esperienze sul campo, IPv6 è un territorio in gran parte sconosciuto, nel quale inevitabilmente si sperimenteranno nuove tecniche di aggressione e di difesa. Particolarmente critico sarà quindi il periodo di transizione, quello in cui verrà attuato lo “switch-off” della rete. Necessariamente questa fase dovrà durare anni, per consentire la sostituzione di hardware e software obsoleto nonché evitare traumi agli utenti con interruzioni di servizi ormai considerati critici per la vita economica e sociale di miliardi di cittadini, imprese e istituzioni. Con ogni probabilità la battaglia si svilupperà sottotraccia, senza lasciar filtrare nulla che possa preoccupare l’utente finale, peraltro in gran parte già largamente inconsapevole del destino dei propri dati, una volta che questi vengono affidati alla rete. Del resto IPv6 è sì una scelta obbligata, ma garantirà migliore efficienza dei collegamenti, configurazioni più semplici, grande supporto ai dispositivi mobili e all’”internet delle cose” prossima ventura. Non resta quindi che assistere, fiduciosi o no, all’ennesima rivoluzione digitale. (E.D. per NL)