Inconciliabilità dell’avvento delle nuove tecnologie applicate al sistema radiofonico con la definizione di ambito locale prevista dal vigente ordinamento giuridico

La storia insegna che un mercato in forte evoluzione sociale, economica e tecnologica, qual è quello delle telecomunicazioni, difficilmente può essere imbrigliato da rigide normative


E’ storia nei libri come, molto spesso, l’avvento di nuove tecnologie abbia letteralmente disapplicato normative emanate allorquando di tali tecniche non vi era nemmeno il sentore.
Nel caso della radiodiffusione sonora, l’avvento ed il consolidamento (unitamente alla sempre maggiore accessibilità ed all’abbattimento dei costi di fruizione) delle nuove tecnologie, quali: satellite, web, telefonia mobile, Wi-Fi, televisione digitale terrestre, ecc., hanno di fatto minato alla radice il principio stesso di ambito locale, né più né meno di quanto abbia inciso nella maggioranza dei mercati economici il fenomeno della globalizzazione.
Oggi, qualsiasi emittente locale, quand’anche dotata di scarse risorse finanziarie, può accedere con estrema facilità al webcasting , la diffusione, cioè, col cd. streaming audio, dei propri programmi.
Il webcasting, avendo luogo attraverso la rete Internet, è, per definizione, un sistema diffusivo di carattere ultralocale (rectius, internazionale o planetario), così come lo è il satellite (ancorchè su scala territoriale di norma inferiore), i cui costi di accesso per un segmento audio sono enormemente calati negli ultimi anni, al punto da renderlo ormai economicamente e tecnicamente conveniente anche per un’emittente locale dotata di una decina d’impianti di diffusione che intendesse sostituire le proprie tratte di collegamento in ponte radio.
Anche la diffusione di programmi radiofonici attraverso la telefonia cellulare è ormai alla portata di gran parte delle emittenti locali e, anche in questo caso, parlare di ambito diffusivo locale non ha ovviamente nessun senso, posto che l’unico limite è determinato dall’accessibilità alla rete telefonica.
Ma è con la tecnologia Wi-Fi, abbreviazione di Wireless Fidelity, che, probabilmente, si conclamerà la definitiva caducazione del concetto di ambito locale nell’ambito delle trasmissioni radiotelevisive.
Come noto, Wi-Fi è il nome commerciale delle reti locali senza fili , infrastrutture, relativamente economiche e di veloce attivazione, che permettono di realizzare sistemi flessibili per la trasmissione di dati usando frequenze radio, estendendo o collegando reti esistenti ovvero creandone di nuove.
L’architettura Internet è del tutto simile ai tradizionali ISP che forniscono un punto di accesso agli utenti che si collegano da remoto attraverso una fonte di connettività a banda larga via cavo (ADSL o HDSL), oppure via satellite .
A partire dalla fonte di banda, si può espandere la rete attraverso la tecnologia Wi-Fi mediante l’installazione di ripetitori anche di grande portata per illuminare aree pubbliche (come aeroporti, centri commerciali, ecc.).
Con la tecnologia Wi-Fi è possibile portare la banda larga nei territori scoperti dalla rete cablata, aggregando più reti in un unico grande network, consentendo la connessione ad Internet in zone altrimenti scollegate.
Negli ultimi anni, alcune province e amministrazioni comunali hanno avviato progetti per la realizzazione di reti civiche con tecnologia Wi-Fi: in molti sostengono, infatti, che i dispositivi basati su tale tecnologia sostituiranno i telefoni cellulari e le reti GSM, anche in considerazione del fatto che parecchi operatori hanno iniziato a vendere dispositivi mobili per accedere a Internet che collegano schede wireless dei cellulari e ricevitori Wi-Fi per trarre benefici da entrambi i sistemi. A riguardo, ci si attende che in futuro i sistemi wireless operino normalmente fra una pluralità di sistemi radio.
In conseguenza della citata evoluzione tecnologica è presumibile che, di qui a breve, la connessione Internet sarà possibile non solo senza fili, ma anche in movimento, così consentendo d’intaccare il privilegio ad oggi mantenuto dalla radio via etere (FM, AM).
Altrettanto prevedibile è, quindi, che da una parte le stazioni radiofoniche integreranno la propria metodologia di diffusione con la tecnologia Wi-Fi, mentre, dall’altra è ampiamente probabile che gli stessi attuali diffusori FM saranno impiegati per la trasmissione promiscua di contributi analogici (le classiche trasmissioni radio cui siamo storicamente abituati) e digitali (veicolazione dati), non esclusi quelli atti a favorire la connettività senza fili Internet.
In questa direzione sembra andare la tecnologia FMeXtra, recentemente approdata in Europa dopo una favorevole sperimentazione negli USA, che consente di trasmettere in piena compatibilità con le frequenze adiacenti, contributi digitali in symulcasting, mutuando ed adattando alle particolari esigenze del nostro etere congestionato e non pianificato lo standard IBOC (In band on channel) consolidatosi da tempo negli Stati Uniti (seppur con un successo altalenante).
Tuttavia, oltre a quelli citati, altri formati per la diffusione della radio digitale sono attualmente presenti sul mercato e stanno cercando di contendersi il primato della consacrazione nello standard condiviso e quindi dominante.
Il grado di accettazione da parte del mercato varia in funzione di considerazioni di allocazione delle porzioni di frequenza, disponibilità della componentistica per la costruzione di impianti trasmissivi e apparati riceventi, unitamente a costi di realizzazione e transizione dai vecchi ai nuovi sistemi. A volte, le necessità d’impiego delle frequenze prevedono, infatti, la vera e propria sostituzione o l’aggiornamento dei precedenti servizi. In altri casi, i nuovi servizi digitali possono essere sperimentati in situazioni che non incidano sullo status quo. Un esempio ormai consolidato viene dalla televisione digitale, sperimentata inizialmente via satellite che ha, per così dire, affiancato sia le trasmissioni televisive satellitari analogiche (SAT Tv), che quelle analogiche terrestri. Lo standard DVB-S è quindi meno “rivoluzionario” del più recente DVB-T per le trasmissioni televisive digitali terrestri. Queste ultime utilizzano canali nelle bande VHF e UHF, assegnate anche al servizio televisivo analogico e tutto ciò implica la creazione di accordi preliminari per la gestione dei canali da assegnare ai due tipi di modulazione del segnale, eventualmente nell’ottica di una sostituzione graduale, ma completa, del vecchio servizio da parte del nuovo (argomento attualissimo, stante l’anticipazione codificata dello swtich-off del 2012).
La trasformazione della radiodiffusione sonora analogica procede a ritmi lentissimi e in questo momento, a parte le citate tecniche sperimentali, si concentra su almeno tre standard dominanti: due sviluppati in Europa (il DAB e le sue evoluzioni e il DRM) ed uno negli Stati Uniti (IBOC, di cui si è detto in precedenza).
Il più antico formato DAB Digital Audio Broadcast è lo standard Eureka 147, pensato nella seconda metà degli anni Ottanta per l’evoluzione della radio in modulazione di frequenza, è, al tempo stesso, oggettivamente, in Europa il sistema più consolidato (almeno sul piano tecnico), diffuso e utilizzato commercialmente, seppur in maniera estremamente variegata e con risultati concreti decisamente poco felici. Nel nostro continente, tale formato è in uso ufficiale da tempo in Gran Bretagna e, seppur in misura decisamente inferiore, in Germania (che tuttavia ha mostrato segni di graduale disimpegno, puntando verso altre soluzioni tecnologiche più innovative). Altre nazioni europee hanno avviato reti sperimentali e alcune hanno già deciso, sulla base degli esperimenti condotti, di non utilizzare più il DAB Eureka 147 in futuro.
Solo ad inizio 2005 l’Italia ha deciso per l’assegnazione di licenze DAB-T.
Nel nostro paese, l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ha emanato in ambito numerico quel Piano Nazionale di Assegnazione delle Frequenze che in ambiente analogico era divenuto un’utopia. Purtroppo, tale provvedimento è rimasto privo di riscontro pratico per disinteresse sostanziale degli operatori (che non hanno creduto in tale tecnologia), inconciliabilità col sistema radiofonico esistente (risorse frequenziali così ridotte da non consentire la migrazione integrale di tutti i soggetti esistenti, tanto da imporre una selezione delle emittenti esistenti, contrastante coi principi costituzionali di libertà di manifestazione del pensiero e d’impresa) ed indifferenza dell’utenza (la tecnica DAB-T non porta un vero valore aggiunto alle trasmissioni irradiate in FM, posto che il miglioramento della qualità del suono è quasi impercettibile rispetto alle emissioni ottimali analogiche, mentre i servizi aggiuntivi, quali la trasmissione dei dati, si sono rivelati di scarso o nullo interesse).
Ad ogni modo, il P.N.A.F. della radio digitale prevede licenze per impianti terrestri DAB nelle bande L e VHF III, quest’ultima già utilizzata per la sperimentazione da parte di stazioni pubbliche e private, in corso da parecchi anni (1998) senza, in verità, nessun particolare successo (come detto, per mancata condivisione della tecnologia da parte dei produttori di ricevitori e disinteresse dell’utenza, che non rinviene in tale tecnica appeal alcuno).
Unica nota d’interesse, sul piano della presente disamina giuridica, è l’Allegato A alla delibera n. 249/02/CONS (Relazione illustrativa al piano nazionale di assegnazione delle frequenze per la radiodiffusione sonora in tecnica digitale), che, all’art. 2 lettera b) definisce come segue i “bacini di utenza”: “Il territorio nazionale è stato suddiviso in bacini di utenza nazionali e locali. I primi coincidenti con un area geografica servita che comprende almeno il 60% del territorio nazionale e tutti i capoluoghi di provincia. I secondi coincidenti, di norma, con il territorio delle regioni o delle province (i bacini di utenza locali coincidenti con il territorio delle Regioni sono stati adottati in quanto la rete 2-SFN in banda VHF-III non è decomponibile a livello provinciale)”. In pratica, un ritorno alle previsioni della L. 223/1990, a dimostrazione della poca chiarezza ancora esistente a riguardo della definizione di ambito locale (ricordiamo, infatti, che all’epoca dell’approvazione del P.N.A.F. per la radio digitale era già stata positivizzata nell’ordinamento giuridico la L. 66/2001, che definiva l’ambito locale in una dimensione massima di utenza di 15 milioni di abitanti, sicché, con la delibera 249/02/CONS si era evidentemente inteso privilegiare, incomprensibilmente, un dimensionamento delle emittenti locali inferiore).
All’inizio del 2007 il Consorzio internazionale per il DAB (che ora ha cambiato la propria denominazione in World DMB Forum) ha approvato alcune modifiche allo standard, in particolare nel dominio dei codec audio, che sono stati aggiornati allo stato dell’arte delle tecnologie di compressione. La sigla DMB, Digital Multimedia Broadcasting, deriva da una variante di Eureka 147 studiata e applicata in Corea del Sud. Nel mese di febbraio 2007, RAI aveva avviato una sperimentazione del DMB attraverso l’attuale sistema di impianti utilizzati (in Banda III) per il DAB. Il test prevedeva anche la trasmissione di immagini prevista dal sistema DMB (che è anche in grado di trasmettere video digitale di tipo televisivo).
Nel caso italiano, la tecnologia DMB non pare però adatta alla transizione all’ambiente digitale delle trasmissioni radiofoniche nel rispetto del principio del pluralismo, posto che le risorse frequenziali disponibili non sembrano garantire spazio sufficiente per le emittenti già esistenti.
Il DRM o Digital Radio Mondiale è uno standard affine al DAB, pensato inizialmente per l’evoluzione qualitativa dei segnali trasmessi sulle onde corte dalle emittenti internazionali. In seguito, sono state avviate sperimentazioni sulle attuali frequenze delle onde medie e onde lunghe analogiche ed è allo studio una versione del DRM (definita DRM +) per la banda della modulazione di frequenza (87,6-107.9 MHz). Utilizzando bande condivise, il DRM comporta, però, al pari di IBOC, alcune problematiche di interferenza nei confronti dei servizi analogici. Se, oggi, il DRM viene utilizzato da un gruppo di emittenti internazionali e da alcune stazioni in onde medie europee, potenzialmente, DRM + potrebbe risultare molto interessante per assetti radioelettrici complessi come quello italiano, posto che, superate le citate pregiudiziali tecniche, consentirebbe di valorizzare l’assetto frequenziale esistente a beneficio degli investimenti effettuati in FM dagli operatori esistenti (che avrebbero in ambiente numerico le stesse garanzie di esistenza che hanno attualmente in tecnica analogica) e dell’impatto elettromagnetico (considerato che non si dovrebbe provvedere a nuove installazioni, come nel caso di altre tecnologie, quali DAB-T/DMB, trattandosi di mera migrazione di formato).
Esiste poi lo standard DAB-S (Digital Audio Broadcasting Satellite) che prevede la diffusione diretta delle trasmissioni radio attraverso satelliti a bassa quota, integrati da microdiffusori terrestri a fini compensativi (per illuminare zone d’ombra non raggiungibili direttamente dalla diffusione satellitare), denominati gap-filler. I principali operatori mondiali della tecnologia DAB-S sono le compagnie americane Sirius e XM, che viaggiano attualmente in cattive acque finanziarie.
In Europa, e segnatamente in Italia, la tecnologia DAB-S è appannaggio di Worldspace Italia, società controllata da Worldspace Inc. di Silver Spring (Maryland), quotata al Nasdaq, che si è aggiudicata l’impiego dei satelliti già orbitanti a bassa quota per la distribuzione continentale di programmi “locali” (dove, appunto, per “locale” s’intende “continentale”, ad ulteriore dimostrazione della relatività del concetto). Il lancio del servizio in Europa era previsto per la fine del 2007 o per i primi mesi del 2008, quando Worldspace Italia, destinataria da parte dell’allora Ministero delle comunicazioni di un’autorizzazione generale e dell’assegnazione dei diritti di uso delle frequenze radio per la fornitura al pubblico di reti di comunicazione elettronica e la fornitura di servizi e dati ad accesso condizionato ai sensi degli artt. 25 e 27 del Decreto legislativo 259/2003 (Codice delle comunicazioni elettroniche) sulla banda di frequenza 1479,5-1492 MHz per l’operatività della rete ibrida terrestre/satellitare, avrebbe dovuto rendere disponibile un bouquet di 50 canali radiofonici accessibili su abbonamento (a un costo da 5 a 12 euro al mese), senza inserti pubblicitari. A riguardo, Worldspace Italia aveva affidato l’installazione della rete di gap-filler terrestri a Telecom Italia, che ne avrebbe garantito l’approntamento in tempi relativamente brevi. Tuttavia, allo stato, non è noto lo stato dei lavori di allestimenti, che comunque paiono ancora di là a concludersi.
Insomma, come si è visto, una vera e propria calca di formati diffusivi, che ha spinto l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni ad indire con la Delibera n. 665/06/CONS del 23 novembre 2006 una consultazione pubblica concernente un’indagine conoscitiva sulla fornitura di servizi radiofonici in tecnica digitale anche mediante ulteriori standard disponibili, ai fini dell’integrazione del regolamento recante la disciplina della fase di avvio delle trasmissioni radiofoniche numeriche approvato con delibera n. 149/05/CONS del 9 marzo 2005 (recante “Approvazione del regolamento recante la disciplina della fase di avvio delle trasmissioni radiofoniche terrestri in tecnica digitale”) .
Un vortice di opportunità tecnologiche, solo parzialmente convergenti, che ovviamente ha lasciato frastornati operatori ed editori, come rappresentato dall’articolo di questo periodico il giorno successivo alla tenuta del primo convegno italiano sul “Digitale radiofonico”, svoltosi a Milano il 16 gennaio 2007. All’epoca avevamo definito il digitale radiofonico come “La chimera del medium di cui si parla (e straparla) da quasi 25 anni, ma che non ha mai ottenuto una concreta applicazione”, riportando l’incredibile sequela di acronimi che contraddistinguono l’attuale proposta digitale radiofonica IBOC (HD Radio), DRM, DRM +, DAB-S, DVB-T, DVB-H, DVB-S, DAB-IP, DAB-T, DMB, osservando che se essa stordiva “chi di radio ci vive”, ben ci si poteva immaginare che effetto potesse avere “su un’utenza già eccessivamente bombardata da un’incessante (e per certi versi insostenibile) evoluzione di standard in altri settori di quotidiano confronto (si pensi ai supporti audio, ai formati della tv, a quelli dei p.c., solo per fare gli esempi più banali)”.
Dato atto che “il futuro della radio sarà digitale”, si rilevava la tendenza degli editori a “temporeggiare in attesa di individuare quale sarà lo standard che sopravvivrà alla inevitabile lotta intestina prima di lanciarsi in investimenti che potrebbero risultare pesanti ed improduttivi”, osservando che “DMB, DRM, DRM +, DAB-S sono, di fatto, considerati soluzioni interessanti ma difficilmente tra loro complementari (e solo teoricamente convergenti)” e che “diverso è risultato l’interesse verso altre tecnologie già impiegate per veicolare prodotti a latere (tv e telefonia in primis), che quindi potrebbero essere sperimentate senza insostenibili investimenti o ingiustificati rischi d’impresa: è il caso del DAB-IP, del DVB-T, del DVB-H e del DVB-S”.Il convegno milanese aveva, poi, portato alla luce le potenzialità di un progetto denominato “Superstreaming” avente attinenza al symulcasting (anche mobile) ma anche e soprattutto, alla tendenza emergente della tv (e della radio) on demand, cioè la possibilità di domiciliare sul web le trasmissioni (o porzioni delle stesse) già andate in onda via etere (cd. podcasting); prospettiva ritenuta di grande attualità da parte degli editori.
Una tendenza ben chiara a Enrico Menduni, filosofo della comunicazione nonché docente di linguaggio radiotelevisivo all’Università di Siena, per il quale la lotta in corso tra gli standard diffusivi diversi dalla Modulazione di Frequenza (FM) vedrà trionfare “la soluzione digitale che più di altre saprà garantire al mezzo radiofonico adeguate caratteristiche di leggerezza e trasportabilità, unite a un costo degli apparecchi quanto più basso possibile” . Secondo il massmediologo, ciò avrà luogo perché quello che va nella direzione di fare della radio “un mezzo pesante anche dal punto di vista dei costi” si scontra “con le esigenze presenti e future di comunicazione mobile, basate sul concetto di apparati sempre più user friendly, leggeri, di prezzo contenuto e, soprattutto, ultra-trasportabili (a tal proposito, ricordiamoci che gli ultimi dati Audiradio ci dicono che, in Italia, oltre il 50 per cento della ricezione radiofonica avviene outdoor, appunto in mobilità)”.Insomma – continua Menduni – contrariamente alla televisione, che è e rimarrà essenzialmente un medium “stanziale” (cioè, da fruire restando a casa) , la radio appare orientata a diventare sempre più “interstiziale”: collocabile cioè in anfratti, quali la tasca di un jeans, il borsellino o un pacchetto di sigarette semivuoto (…). Ecco, così dovrà essere la radio del domani”.
Una radio destinata a combinarsi con altri strumenti della comunicazione quotidiana, confondendo e superando i principi socio-tecnologici della trasmissione da “uno a molti” (radio/tv/internet), da “uno ad uno” (telefonia), da “molti a molti” (internet/intranet) . I programmi saranno quindi diffusi, con ogni probabilità, attraverso piattaforme eterogenee: se certamente non tramonterà l’antica FM (così come le ancora più datate onde medie), che probabilmente si adeguerà alla rivoluzione digitale “andando a consolidare in maniera esponenziale l’intrigante feeling con i protocolli a carattere “IP mobile”, con l’interattività e con il web: un ambiente, questo ultimo, in grado di garantire persino alle emittenti radiofoniche più piccole la possibilità di raggiungere una platea praticamente mondiale”, sostiene Menduni.
D’altra parte il medium radiofonico appartiene al più ampio settore delle telecomunicazioni, il quale è utilizzato per l’espansione di un mercato globale (o verticale) sempre più ampio, in termini sia di prodotti commercializzati che di sbocchi geografici, contrapposto ad un mercato locale (od orizzontale), in costante contrazione.
E’ quindi anche nella logica di tale trasformazione socio-economico-culturale che la radio è destinata ad integrarsi con tutti gli strumenti diffusivi a lei affini, concedendo peculiarità proprie ed assorbendo quelle altrui, nell’intento di “avvolgere” l’utente in un’evidente convergenza mediatico-tecnologica.
Non a caso, alla convergenza dei mezzi di comunicazione sulla persona è stato dedicato un neologismo sociologico: media-multitasking, cioè la capacità di un soggetto di fruire o di utilizzare più strumenti in contemporanea. Un concetto che solo qualche decennio fa era difficile anche poter immaginare.
Oggi, invece, servirsi di più media allo stesso tempo, non solo è la norma (specie per i giovani), ma anche una necessità, come ha dimostrato la recente indagine Bridge Ratings che ha riguardato la propensione al media-multitasking dei giovani tra i 15 e i 24 anni.
Il dato che maggiormente balzava agli occhi nel report statistico riguardava il web: per la prima volta da cinquanta anni a questa parte la tv non era più il mezzo più utilizzato dai giovani, scalzato da Internet, la cui percentuale (di tempo che i giovani dedicano al suo utilizzo) era salita dal 19,3% del 2004 al 23,1% del 2006. Un vero trionfo, specie se si considerava che la televisione aveva perso lo scettro, passando dal 25,3% al 21,6% in soli due anni.
Snodandosi sugli altri media, la statistica evidenziava il trend positivo dei lettori mp3, tecnologia nata e sviluppatasi nell’ultimo lustro, che occupava il 18,7% del tempo libero dei giovani, contro il 15,4% del 2004. Saliva, seppur di poco, il telefono cellulare, dal 9,6% al 12,4%, restando, però, in coda come tempo d’utilizzo.
La debacle più vistosa, però, la faceva registrare la radio: il medium tecnologico più antico sembrava essere stato scalzato dai mezzi “giovani”, interattivi e visivi. I dati indicavano un declino sensibile, con un passaggio dal 20,1% al 15,7% in tempo brevissimo.
Un segnale chiaro: la sopravvivenza del medium radiofonico non può che passare dall’integrazione con altri strumenti di comunicazione, primi fra tutti, come abbiamo visto, il web e la telefonia cellulare, nell’intento di esaudire le rinnovate necessità dell’utenza.
Soddisfare le mutate esigenze di un pubblico profondamente evolutosi sul piano tecnologico non è, tuttavia, un problema solo della radio, come ben denotano le seguenti dichiarazioni di quattro dei maggiori esponenti del giornalismo mondiale: Rob Curley, Washington Post: “I giornali devono essere padroni delle news, lanciandole subito su web e cellulari”; Gordon Crovitz, Wall Street Journal: “Il nostro destino è inseguire i lettori dalla prima colazione a quanto vanno a letto”; Vivian Schiller, New York Times: “Siamo un network di pubblico e giornalisti, puntiamo su blog, forum, chat: mettiamo il lettore nella cabina di comando”; Khaled Taha, Al Jazeera: “La tecnologia servirà a dar voce a chi non ce l’ha: con i videofonini potremo mettere in onda chiunque”.In altri termini, la radio, così come gli altri media, deve integrarsi con i nuovi strumenti di telecomunicazione, per sopravvivere ed evolversi.
Come potrebbe farlo, rimanendo ancora soffocata in lacci e laccetti burocratici come il dimensionamento demogeografico dell’ambito diffusivo?
Ecco perché la soppressione del vincolo diffusivo delle trasmissioni radiofoniche non sarà una scelta di un avveduto legislatore, bensì la tappa forzata della normalizzazione globale del medium. *

(*) Mutuato da “Il concetto giuridico di ambito locale nel sistema radiofonico italiano alla luce dell’evoluzione tecnologica”. Qui per il download integrale e gratuito.

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