Secondo il report annuale ISTAT sono aumentati (dall’11,4% del 2015 al 13,3 del 2016) quanti dichiarano di guardare la tv per ‘qualche giorno’.
Viceversa sono diminuiti sensibilmente quelli che ascoltano la radio (nel 2015 erano il 57,9% della popolazione di 3 anni e più, mentre ora sono il 53). Colpa della perdita della generazione Z e dei millenials, potrebbe sostenere qualcuno.
Sbagliato, perché ISTAT dice espressamente che gli ascoltatori sono diminuiti in modo generalizzato, sia tra gli uomini sia tra le donne, in tutte le fasce di età e ambiti territoriali. Però l’Istituto nazionale di statistica dice anche che è aumentata la fidelizzazione: la quota di coloro che affermano di ascoltarla tutti i giorni è infatti cresciuta dal 55,4% al 59,7.
Tendenze apparentemente contraddittorie, se non si considerassero i limiti delle statistiche.
Una delle spiegazioni possibili potrebbe infatti essere che l’ascolto radiofonico è sceso in generale perché mentre molte emittenti hanno perso appeal, un ristretto numero ha aumentato la propria incidenza.
Insomma, il principio del “pollo di Trilussa” o, ancora meglio, il coefficiente di Gini: quello che misura la diseguaglianza di una distribuzione (conosciuto come l’indice di concentrazione per misurare la diseguaglianza nella distribuzione del reddito o anche della ricchezza).