Radio 4.0? Se ne parla e tanto, ma l’impreparazione dei vertici dei principali player radiofonici nazionali sull’argomento è quantomeno imbarazzante.
Eppure si tratta del futuro; del loro futuro. Quasi che la congiuntura tutto sommato favorevole in cui si muove la radiofonia nazionale sia destinata a rimanere tale, in eterno.
Eppure i casi americani di iHeart e Cumulus dovrebbero insegnare che le rendite di posizione, per quanto lunghe, non durano per sempre.
Non vogliamo, al solito, parlare di Spotify, di Pandora, di iTunes, di YouTube Music e SOD rampanti, anche se non sarebbe peregrino farlo.
Ma non si può nemmeno relegare la tendenza 4.0 radiofonica all’integrazione alla diffusione FM di un live streaming, di una mera presenza sulle principali piattaforme aggregatrici, dell’indispensabile presidio del DTT e del sat attraverso la visual radio. Essa è ben altro.
Infatti, vogliamo richiamare l’attenzione sul prossimo tsunami degli smart speaker, che sconvolgeranno la fruizione radiofonica traghettandola da un modello lineare ad uno on demand, attraverso il podcasting e la verticalizzazione dei contenuti contestualizzati in un brand bouquet commercializzato orizzontalmente.
Oppure sull’inconizzazione del brand radiofonico sul dashboard delle auto interconnesse, che sostituirà la manopola della sintonia con quattro simboli radiofonici (anzi, musicali) che rimanderanno a 1000 stazioni tematiche catalogate cadauno e suggerite previa profilazione da parte dell’Intelligenza Artificiale che guiderà l’utente. Quattro icone in luogo delle 6/8 preselezioni delle autoradio.
Eppure negli uffici dei non raramente settantenni editori radiofonici, ci si gongola del (e nel) presente, considerando il futuro IP un qualcosa di così lontano da non riguardarli (e anagraficamente, in effetti, potrebbe anche essere così…).
Un po’ come hanno fatto, da noi negli ultimi anni RAI e Mediaset, quando qualcuno evidenziava la progressiva crescita di un anomalo competitor: Netflix.