Il fair use vale un sesto del PIL degli Stati Uniti

Lo sostiene un report della CCIA (Computer And Communication Industry Association) sull’economia del fair use


Molta della crescita economica senza precedenti degli ultimi 10 anni, va pienamente attribuita alla dottrina del fair use, poiché l’intera Internet dipende dalla possibilità di usare i contenuti in maniera limitata ma senza la necessità di autorizzazione preventiva”, sostiene Ed Black, CEO della CCIA, ed i numeri gli danno ragione.
Fatturato di 4,5 trilioni di dollari, valore aggiunto di 2,2 trilioni, produttività di 128 mila dollari per addetto, contributi alle esportazioni di 194 miliardi e, infine, dato questo molto significativo, 17 milioni di posti di lavoro. Dunque, fair use come motore del progresso economico e, come tale, deve essere rafforzato da un ormai inderogabile restringimento dei vincoli previsti dalle regole del copyright. Secondo il Copyright Act, la legge sul diritto d’autore statunitense del 1976, è lecita la citazione non autorizzata o l’incorporazione di materiale protetto solo qualora si verifichino specifiche condizioni, da valutare congiuntamente, quali la natura dell’uso, in particolare se ha natura commerciale oppure didattico e senza scopo lucrativo; la natura dell’opera protetta; la quantità e l’importanza della parte utilizzata in rapporto all’insieme dell’opera protette; le conseguenze di questo uso sul mercato potenziale o sul valore dell’opera protetta.
Condizioni che possono non essere sufficienti a determinare, alcune volte, l’effettiva differenza fra fair use e copyright, come lo stesso ente governativo ha dichiarato. Difficoltà che, a loro volta, possono portare ad un uso eccessivo della normativa a favore degli interessi dei detentori del copyright. “Il copyright è stato creato come un tool funzionale per promuovere la creatività, l’innovazione e l’attività economica”, aggiunge Ed Black, e pertanto “esso dovrebbe venire valutato secondo gli standard, non certo partendo da presunti diritti morali o misure astratte di diritti di proprietà”. Alla posizione della CCIA controbatte la Copyright Alliance, consorzio composto da colossi quali Disney, Time Warner e Microsoft, che si è pronunciato a favore di un restringimento delle condizioni che permettono il fair use: “il fair use non è un diritto del consumatore”, ha affermato Patrick Ross della Copyright Alliance, ma solo un sistema per concedere l’autorizzazione a professionisti che devono riprodurre molto spesso oppure per stimolare la creatività in caso di uso personale, senza dover concedere un autorizzazione per ogni utilizzo di materiale coperto dal copyright. E nel dibattito, curiosa è la posizione di Microsoft che, pur facendo parte della Copyright Alliance, aderisce anche alla CCIA: “il fatto che siamo presenti in entrambe le associazioni non è così strano”, ha affermato Andrea Valloni, chief technology officer di Microsoft Italia. “E’ vero che abbiamo sempre sostenuto la necessità di proteggere i diritti di proprietà intellettuale, ma non è detto che ciò sia incompatibile con l’esigenza di salvaguardare il fair use. E’ un principio che noi interpretiamo nel senso di consentire l’accesso a determinate risorse, anche se protette da copyright, quando ciò serva a preservare l’equilibrio di determinati ecosistemi culturali o economici”. E aggiunge: “il vero problema è che il software si sta differenziando in due tipi di prodotti. I primi, che devono garantire l’interoperabilità fra sistemi, tenderanno a diventare sempre più standardizzati e liberi da vincoli della proprietà intellettuale, mentre i secondi, di tipo funzionale, saranno quelli in cui si concentrerà il valore aggiunto, e per i quali avrà ancora senso tutelare giuridicamente lo stimolo all’innovazione”. In pratica, la legge è troppo rigida e andrebbe rivista, o l’industria hi-tech, Microsoft compresa, potrebbe risentirne.

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