Per l’integrazione del delitto di cui all’art. 8 del decreto legislativo 10 marzo 2000, n. 74, non è richiesto che le fatture per operazioni inesistenti vengano utilizzate nelle dichiarazioni fiscali dei soggetti destinatari. Invero, la dichiarazione fiscale è divenuta elemento essenziale del reato di utilizzazione di fatture per operazioni inesistenti e non già del reato di emissione di fatture fittizie.
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La decisione massimata evidenzia una delle tante disarmonie che connotano il sistema penaltributario di nuovo conio concernente il rapporto tra le fattispecie introdotte con il decreto di riforma dei reati tributari del 2000 e la ratio ispiratrice del nuovo impianto sanzionatorio.
In particolare, si fa riferimento ai principi ed ai criteri direttivi che il legislatore delegante ha impartito con l’art. 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205, laddove, alla lettera a) del c. 2°, in prima battuta esige che le fattispecie di nuova introduzione siano caratterizzate da rilevante offensività per gli interessi dell’erario, e poi, con riferimento al delitto in esame, si limita a richiedere che l’emissione di documentazione falsa debba essere diretta a consentire a terzi la redazione di una dichiarazione annuale fraudolenta fondata sulla predetta documentazione.
Invero, a tali istanze non è conseguita la creazione di una figura delittuosa che necessariamente determini il verificarsi di una situazione altamente offensiva per gli interessi erariali.
Ciò risulterebbe dalla stesura della disposizione incriminatrice contenuta nell’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000; infatti, la condotta sanzionata dalla disposizione predetta è totalmente disancorata dalla sensibile offensività richiesta dal legislatore delegante.
Conseguentemente, l’emittente delle fatture ideologicamente false verrebbe assoggettato a sanzione penale anche nelle ipotesi in cui la documentazione fittizia rilasciata o emessa sia di esiguo importo; si evidenzia che in questi casi il comportamento dell’emittente risulta sprovvisto dell’offensività richiesta.
La mancata correlazione della condotta sanzionata dall’art. 8, citato, al grado di offensività richiesto dal legislatore delegante, viene in evidenza anche quando le fatture non siano state riportate in contabilità e nelle dichiarazioni fiscali del soggetto utilizzatore e, pertanto, non abbiano in alcun modo inciso sull’entità dell’imposta da questi dovuta.[1]
Appare, pertanto, evidente che, almeno per la fattispecie in esame, si riscontrerebbe un ritorno al passato e, cioè, al modello dei cosiddetti reati prodromici, in aperto contrasto con il principio ispiratore del nuovo assetto penaltributario voluto dal legislatore delegante[2], rappresentato, secondo l’Esecutivo, dall’esigenza “[…], profondamente avvertita, di superamento della strategia che informa la vigente regolamentazione, […]: quella strategia, cioè, che ponendo prioritariamente l’accento sull’esigenza di emancipare il giudice penale dall’accertamento dell’imponibile e dell’imposta evasa, affida l’intervento repressivo al modello dei cosiddetti «reati prodromici», ossia a fattispecie criminose volte a colpire, indipendentemente da un’effettiva lesione degli interessi dell’erario, comportamenti ritenuti astrattamente idonei a preparare il terreno ad una successiva evasione.”[3]
Le considerazioni che precedono risulterebbero rafforzate dalla previsione contenuta nell’art. 21, c. 7 del d.P.R. n. 633 del 1972, secondo cui, per quanto riguarda l’IVA, “se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, […], l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura”, e dal fatto che l’importo di tale documentazione contribuisce all’incremento dei ricavi e, conseguentemente, dell’utile dell’esercizio su cui calcolare le imposte dirette (irpef ed ires).[4]
Pertanto, indipendentemente dal fatto che le fatture ideologicamente false vengano o meno utilizzate dal soggetto che ne era il destinatario, l’emittente dovrà versare l’IVA sulle predette fatture, a norma dell’art. 21, c. 7 citato, e le imposte dirette calcolate sull’utile risultante dalla differenza tra i ricavi, comprensivi degli importi delle fatture su indicate, ed i costi dell’esercizio.
Inoltre, sulla base di quanto evidenziato, qualora il destinatario della documentazione fittizia non la utilizzi in dichiarazione annuale, non sarebbe azzardato ritenere che, oltre a difettare dell’offensività richiesta dalla delega, la condotta dell’emittente potrebbe risolversi in un indiretto vantaggio per le casse dello Stato.
Si deve, altresì, rilevare il trattamento ingiustificatamente differenziato del soggetto emittente e del soggetto utilizzatore, almeno con riguardo al segmento di condotta consistente nella registrazione in contabilità della fattura fittizia.
Infatti, mentre il primo verrebbe comunque assoggettato alla sanzione penale per il semplice fatto di aver emesso documentazione falsa, il secondo, pur avendo registrato in contabilità la predetta documentazione, non sarebbe punibile qualora non riportasse gli importi delle fatture fittizie nella dichiarazione annuale presentata ai fini delle imposte dirette e dell’Iva.
Si pensi al caso di colui che nel corso dell’esercizio subisca un accertamento da parte dell’Amministrazione finanziaria e per evitare di essere incriminato per l’utilizzazione della documentazione fittizia decida di non “trasferire” il contenuto delle predetta documentazione nelle dichiarazioni annuali; in questa specifica ipotesi troverebbe applicazione la disposizione contenuta nell’art. 6 del decreto citato, secondo cui “i delitti previsti dagli articoli 2, 3 e 4 non sono comunque punibili a titolo di tentativo.”
Quindi, se in punto di diritto l’offensività richiesta dal legislatore delegante si traduce nella pericolosità del comportamento stigmatizzato dall’art. 8 citato, è pur vero che sarebbe quantomeno opportuno adeguare la risposta sanzionatoria agli esiti di siffatta condotta.
In altri termini, sarebbe necessario un intervento legislativo diretto, da un lato, a stabilire la sanzione penale applicabile in capo al soggetto emittente anche sulla base della valutazione dell’eventuale corretto assolvimento degli obblighi di versamento conseguenti all’emissione della documentazione fittizia, e dall’altro, ad espungere dal novero dei comportamenti penalmente rilevanti quelli a cui non consegua alcun illecito risparmio di imposta ovvero a mitigare le pene previste dalla disposizione incriminatrice in esame per quei casi in cui la documentazione fittizia sia di esiguo importo.[5]
Dott. Massimo Sperduti
Rag. commercialista
Revisore Contabile
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Rag. Ettore Sperduti
Commercialista
Consulente del lavoro
Revisore Contabile
Mediatore creditizio
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[1] A tal proposito, si veda Corte cost., 15 marzo 2002, n. 49, in Giur. Imposte, 2002, 735, secondo cui “con riferimento al delitto di cui all’art. 8 d.lg. n. 74 del 2000, il legislatore, in via eccezionale, ha perpetuato il vecchio modello punitivo, continuando a reprimere penalmente le condotte di emissione di fatture od altri documenti per operazioni inesistenti, finalizzate a consentire l’evasione altrui, ancorchè meramente preparatorie all’evasione stessa.”
[2] Si rammenta che secondo la suprema Corte, il d.lgs. n. 74 del 2000 “[…], intende realizzare un nuovo sistema penale tributario, […], superando il precedente sistema incentrato sulla repressione di violazioni strumentali e prodromiche ad una falsa dichiarazione e alla evasione d’imposta”. Cass. pen., Sez. Unite, 15 gennaio 2001, n. 35, in Dir. e Prat. Trib., 2001, II, 718.
[3] Relazione governativa (schema del 3 marzo 2000), par. 1.
[4] In particolare, si veda Cass. civ., Sez. V, 10 giugno 2005, n.12353, in Mass. Giur. It., 2005, la quale esclude che l’emittente di fatture fittizie possa giovarsi dell’emissione di una nota di credito per evitare il pagamento dell’IVA indebitamente fatturata. Infatti, secondo la suprema Corte “in tema di IVA, la speciale procedura di variazione prevista dall’art. 26 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, presuppone necessariamente, come si desume univocamente dalla considerazione della funzione perseguita dalla norma, che l’operazione per la quale sia stata emessa fattura, da rettificare perchè venuta meno in tutto o in parte in conseguenza di uno degli specifici motivi indicati nel secondo comma della norma stessa, sia una operazione vera e reale e non già del tutto inesistente. Ciò discende anche dal disposto dell’art. 21, settimo comma, del menzionato d.P.R. n. 633 del 1972, il quale – nel prevedere, allo scopo di ricondurre a coerenza il sistema impositivo dell’IVA, fondato sui principi della rivalsa e della detrazione, che, se viene emessa fattura per operazioni inesistenti, “l’imposta è dovuta per l’intero ammontare indicato o corrispondente alle indicazioni della fattura” – da un lato incide direttamente sul soggetto emittente la fattura, costituendolo debitore d’imposta sulla base dell’applicazione del solo principio di cartolarità, e, dall’altro, incide indirettamente, in combinato disposto con gli artt. 19, primo comma, e 26, terzo comma, dello stesso d.P.R., anche sul destinatario della fattura medesima, il quale non può esercitare il diritto alla detrazione o alla variazione dell’imposta in totale carenza del suo presupposto, e cioè dell’acquisto (o dell’importazione) di beni e servizi nell’esercizio dell’impresa, arte o professione.”
[5] Si ricorda che per le fatture di modico ammontare risulterebbe pur sempre applicabile la pena prevista dall’ultimo comma dell’art. 8 del d.lgs. n. 74 del 2000.