Che gli editori televisivi minori fossero considerati dal governo Berlusconi una palla al piede non lo avevano capito solo i tonti o quelli con gli occhi foderati di salame.
Però, dopo aver cancellato con un colpo di spugna le provvidenze per l’editoria, aver falciato i contributi ex L. 448/1998, aver assegnato nelle aree digitalizzate frequenze da liberare entro pochi mesi e LCN infrequentabili, presentare alle tv locali una gabella annuale di 27.750,00 euro per un territorio servito sino a 200.000 abitanti e di 55.500,00 in caso di superamento del limite (si tenga presente che per l’intero territorio nazionale si paga solo il doppio), dà proprio la misura del piano di sterminio programmato (oggi le emittenti corrispondono un canone pari all’1 % del fatturato dell’anno precedente). E, peraltro, nemmeno basta, perché, a mente dell’allegato 10 al Codice delle comunicazioni elettroniche (cui rimanda l’art. 7 delle determine di assegnazione della frequenze DTT), “I titolari di diritti di uso di frequenze radioelettriche per l’espletamento di servizi di rete diffusiva TV sono tenuti al pagamento dei contributi annui di seguito indicati: a) per larghezza di banda fino a 100 KHz esclusi 1.110,00 euro; da 100 KHz inclusi a 1 MHz escluso 5.550,00 euro; da 1 MHz incluso a 10 MHz esclusi 11.100,00 euro; da 10 MHz inclusi 22.200,00 euro”. E ancora: “I titolari di diritti di uso di frequenze radioelettriche per l’espletamento di servizi di rete di contribuzione televisiva punto-punto o punto-multipunto sono tenuti al pagamento dei contributi annui di seguito indicati: a) per larghezza di banda fino a 100 KHz esclusi 1.110,00 euro; da 100 KHz inclusi a 1 MHz escluso 5.550,00 euro; da 1 MHz incluso a 10 MHz esclusi 11.100,00 euro; da 10 MHz inclusi 22.200,00 euro”. Tabelle, quelle dell’allegato 10, che il MSE-Com ha deciso unilateralmente di applicare in barba alla norma speciale contenuta all’art. 17, comma 2-bis, del Testo Unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici, che delega l’Agcom alla determinazione dei contributi dovuti. Questo sì che si chiama un governo “del fare”.