Il capo può spiare le mail dei dipendenti? Un commento alla sentenza della Cassazione che introduce nell’ordinamento un curioso orientamento gurisprudenziale

Il datore di lavoro può leggere le mail aziendali del lavoratore se esiste un regolamento che impone la comunicazione della password del Pc e della posta in esso contenuta al superiore gerarchico


Con la sentenza n.2919/07 la Cassazione adegua ed aggiorna alla tecnologia informatica il tema della tutela della liberta della corrispondenza, nonché il diritto giuslavoristico del datore di lavoro di conoscere, ed eventualmente gestire, la corrispondenza endoaziendale dei propri dipendenti. L’importante pronuncia de qua, prende le mosse da un ricorso del pubblico ministero avverso una sentenza di merito del Tribunale di Torino, sezione staccata di Chivasso che aveva prosciolto, perché il fatto non sussiste, un dirigente aziendale dall’imputazione di cui all’art. 616 c.p. per aver preso cognizione della corrispondenza informatica interna di una dipendente, licenziata poi sulla base delle informazioni così acquisite. Nel motivare il suo ricorso, il pubblico ministero aveva sostenuto la tesi che il giudice di merito avesse dato troppa enfasi alla proprietà aziendale del mezzo di comunicazione violato, senza considerare che il mezzo informatico fosse ontologicamente destinato non solo al lavoro, ma anche alla comunicazione personale, come tale tutelata ex art. 15 Costituzione. In una prospettiva di diritto penale sostanziale, l’art. 616 c.p. punisce il fatto doloso o colposo di “chiunque prende cognizione del contenuto di una corrispondenza chiusa, a lui non diretta ovvero sottrae o distrae al fine di prenderne cognizione, una corrispondenza chiusa o aperta, a lui non diretta ,ovvero ,in tutto o in parte, la distrugge o sopprime”. Dall’analisi della fattispecie configurata da questa norma, si desume perciò che: quando non vi sia sottrazione o distrazione la condotta del soggetto attivo che si limita a “prendere cognizione” della corrispondenza, costituisce reato solo se cade su di una “corrispondenza chiusa”. Se la corrispondenza è “aperta” si è puniti solo se chi agisce abbia l’esclusivo fine di sottrarre la corrispondenza medesima al destinatario oppure la distragga dalla sua destinazione naturale. Ciò premesso è da ritenersi che la corrispondenza informatica sia da qualificarsi (ex art.616 comma 4) come “chiusa” solo nei confronti di coloro che non siano legittimati all’accesso dei sistemi telematici di invio o ricezione dei singoli messaggi. Infatti, a differenza di quanto accade per la corrispondenza cartacea, di regola accessibile solo al destinatario, è la legittimazione all’uso del sistema che abilita alla conoscenza delle informazioni telematiche in esso custodite. Va da sé che tale legittimazione non risulta legata solo alla proprieta’ del mezzo stesso, ma anche alle norme che ne regolano l’utilizzo. Qualora l’accesso ai dati sia protetto da una password di ingresso, la corrispondenza in esso contenuta potrà essere legittimamente conosciuta da tutti coloro che abbiano un valido titolo per possedere tale chiave. Nell’ulteriore ipotesi poi di accesso condizionato, l’antigiuridicità della condotta assumerà rilievo sotto profili diversi da quelli della previsione dell’art. 616 del codice penale. Nel caso esaminato dalla Corte invece, le password poste a protezione dei singoli pc aziendali e della corrispondenza di ciascun dipendente erano a conoscenza anche dell’organizzazione aziendale, essendone prescritta la comunicazione, sia pure in busta chiusa, al superiore gerarchico, abilitato ad usarla in assenza del destinatario di riferimento. Infine, va sottolineato che, secondo le prescrizioni del provvedimento del Garante per la protezione dei dati personali n.13 del 1 marzo 2007, i dirigenti aziendali possono legittimamente accedere ai computer in dotazione ai propri dipendenti, quando delle condizioni di tale accesso sia stata data loro piena informazione.(Paolo Masneri per NL)

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