Se siete telespettatori di Prime Video, la piattaforma over the top di Amazon principale competitor di Netflix, avete già fatto la vostra scelta. Che vi ha classificato in una delle due nuove categorie in cui rientrano gli utenti della tv on demand di seconda generazione.
La prima opzione è quella di vedere i contenuti gratis ma inframmezzati da pubblicità, per ora non particolarmente invasiva (un cluster non skippabile di norma di due o tre spot per un totale tra 45″ e 90″), con innesti chirurgici che non interrompono bruscamente il contenuto.
Opzione II
La seconda, è pagare per garantirsi la visione continua, senza ingerenze commerciali dirette.
Comunque vada sarà un successo
E ciò considerando che, comunque, l’assenso alla profilazione è di per sé un nulla osta ad Amazon per futuri impieghi commerciali.
La crescita dell’AVOD
Secondo la società Kantar, specializzata nell’insight management solution, la pubblicità correlata ai video on demand (AVOD, acronimo di ad-based video on demand) continua la sua crescita con un ritmo del 20% annuo dal 2021 ad oggi.
Telespettatori favorevoli alla pubblicità
Il relativo studio Media Reactions rivela come “i consumatori accolgono le pubblicità in maniera più positiva con questa modalità” ma anche “che un investimento maggiore nelle pubblicità rende i contenuti pubblicitari più appetibili”.
Due tipi di telespettatori
Tuttavia, i modelli pubblicitari stanno già determinando due tipi di telespettatori: “quelli con un reddito disponibile minore – che diventano eccessivamente bersagliati dagli annunci – e quelli con un budget di spesa maggiore. Più attraenti per gli inserzionisti, ma più difficili da raggiungere”.
Una bella differenza
Insomma, una bella sfida per i pubblicitari, considerato che ai tempi del solo lineare free via etere il bersaglio era uno solo: l’utente in generale. E la competizione – a parità di qualità tecnica delle reti di distribuzione – era sull’attrattività del contenuto.
Le fasi della caccia ai telespettatori
Ora invece la caccia all’utente avviene in più fasi.
Fase I
La prima fase è l’engagement sulla piattaforma: l‘OTT deve stimolare i telespettatori ad accedere al proprio bouquet attraverso la sua smart tv o il suo schermo connesso.
Fase II
Il secondo step è convincerlo a rimanerci. Ovviamente non tanto aumentando i passaggi tecnici per uscire dalla piattaforma (un deterrente da impiegare con parsimonia per evitare che poi l’utente non torni più), quanto fornendo un ampio e variegato catalogo di contenuti.
Comfort zone
Così vasto ed attraente da demotivarlo dall’affrontare una defatigante analoga ricerca sulle piattaforme concorrenti.
Fase III
Il terzo passaggio è sondare la capacità di spesa dei telespettatori, mettendoli davanti all’opzione di pagare per avere un contenuto in fruizione continua, senza interruzioni pubblicitarie. Oppure, accettare una “modesta” ingerenza commerciale.
Q.B.
Almeno quel tanto che basta per convincerlo a passare al pay. O, in alternativa, continuare la fruizione spostando il business della piattaforma dal pay diretto al pay mediato: guadagnando dall’advertising.
Est modus in rebus
Che non deve però essere eccessiva, pena ottenere l’abbandono definitivo dell’OTT.
Preda ambita
Tale condizione determina, però, inevitabilmente, due tipi di telespettatori, entrambi profilati e quindi merce da big data.
No pay e pay
Quello non pagante, che tipicamente lo è in qualsiasi frangente (generalmente non si abbona ai giornali online, non acquista audio on demand, è restio a sottoscrivere piani di somministrazione per beni e servizi) e quello, potenzialmente di maggior reddito, propenso ad accettare soluzioni a pagamento.
Comunque profilato
Di quest’ultimo la piattaforma si dovrà accontentare della pur preziosissima profilazione.
Tecniche di ingaggio allo studio
In attesa di individuare tecniche di cattura per una adv che lo considera come una delle prede più ambite, perché molto sfuggente.