7 novembre 2004: il giornalista Raffaele Jannuzzi (detto Lino, foto) pubblica sul quotidiano Il Giornale un articolo al sapor di veleno sulla gestione del fenomeno del pentitismo mafioso negli anni dal 1993 al 1999. Le reazioni dei diretti interessati non tardano ad arrivare. Giancarlo Caselli, che a quel tempo ricopriva l’incarico di Procuratore della Repubblica di Palermo, con il suo più stretto collaboratore, il vice Guido Lo Forte, querelano per quello scritto, a loro dire diffamatorio, il giornalista. Conseguentemente, anche l’allora direttore della testata, Maurizio Belpietro, viene accusato di omesso controllo. Nell’esposto i due alti funzionari chiedono centomila euro ciascuno di risarcimento danni.
27 novembre 2007: il Tribunale di Milano, terza sezione penale, nella persona del giudice Sofia Fioretta, assolve entrambi gli imputati “per non aver commesso il fatto”, rigettando la richiesta del pubblico ministero che li voleva condannati ad otto mesi di carcere. Nelle motivazioni, già depositate, si legge che “la facoltà di ricostruire polemicamente i fatti (…omissis) costituisce esercizio del diritto di critica se tutti i fatti storici descritti nell’articolo corrispondono a verità”. Fin qui, rallegriamoci della tendenza che va consolidandosi di applicare con maggiore elasticità le norme concernenti i reati d’opinione. Va infatti ricordato che nel 2004 il Governo di Centro-destra, in verità riscuotendo il plauso anche dell’opposizione, commentando una condanna a due anni e cinque mesi per diffamazione a mezzo stampa inflitta allo stesso Jannuzzi – diventato nel 2001 senatore nelle fila di Forza Italia – paventava sul punto una riforma che, per il delitto in questione, eliminasse la galera (si veda Corriere.it, 10 giugno 2004).
Proseguendo nella lettura della statuizione, l’estensore della decisione prende posizione proprio sul motivo del contendere, ricostruendo le vicende palermitane, avallando il racconto giornalistico e condividendo le denunce di cui si fece portatore lo stesso Jannuzzi. Un incisivo passaggio del verdetto conferma che “in quegli anni (immediatamente successivi all’uccisione dei giudici Giovanni Falcone, Paolo Borsellino ed i relativi agenti di scorta, n.d.r) a Palermo ci fu qualcosa di peggio di una guerra tra carabinieri e magistratura: ci fu l’enorme e subdolo potere dei collaboratori di giustizia”.
Giusto per fare un po’ di chiarezza, nell’articolo controverso, la polemica con i magistrati siciliani spaziava dal denunciato naufragio dell’inchiesta mafia–appalti, al suicidio del maresciallo Antonio Lombardo, al ritardato arresto di Balduccio Di Maggio, fino al caso più discusso e controverso, la cattura del boss corleonese Salvatore Riina (detto Totò) il 15 gennaio 1993 e la mancata contestuale perquisizione del suo covo. Proprio su questi episodi il Tribunale del capoluogo lombardo prende le distanze dalla Procura palermitana, stigmatizzando negativamente, tra l’altro, l’indagine per favoreggiamento nei confronti di Cosa Nostra, poi culminata con un’assoluzione, contro il capitano dei carabinieri Sergio De Caprio (c.d. “Ultimo”) ed il suo superiore, generale Mario Mori, che coordinarono la cattura del sanguinario “uomo d’onore”. A tal proposito, il giudice Fioretta, scagionando Jannuzzi e Belpietro dai reati ascritti, si spinge fino a riscattare il valore di tutte quelle persone che, rischiando quotidianamente la vita, fulgidi esempi di servitori dello Stato, vennero ingiustamente coinvolte in un triste can can di accuse ed illazioni poi risultate infondate.
Pur rallegrandoci dell’assoluzione dei due giornalisti, ci preme, però, sottolineare ulteriormente quello che di veramente inaspettato è contenuto nella statuizione. Scrive il magistrato: “Ritiene il tribunale che i fatti posti a fondamento del giudizio pesantemente critico espresso da Jannuzzi nei confronti della Procura della Repubblica di Palermo corrispondano a verità”. Ancora, “la ritardata perquisizione del covo di Totò Riina è stata atto concordato dai carabinieri del Ros e dall’ufficio inquirente (la Procura, n.d.r.); infine, si ribadisce la ineccepibilità e la buona fede dei due militari dell’Arma, dimostrata anche dall’alto livello qualitativo del loro stato di servizio e dalla efficace condotta tenuta negli anni in cui la Sicilia viveva difficili momenti di lotta alla criminalità organizzata, sostenendo, inoltre, che “se si fosse fatto come voleva la Procura e non come voleva “Ultimo”, Riina non sarebbe mai stato preso”.Concludendo, attraverso un procedimento per diffamazione a mezzo stampa, si sdogana con il suggello dello Stato una lettura dei fatti concernenti le vicende storiche descritte nella pubblicazione di Jannuzzi. Posto che ogni giudice adotta la tecnica di redazione delle motivazioni che più lo aggrada, badando solo di rispettare la procedura in merito prevista dalle disposizioni di legge vigenti, nella sentenza di cui siamo a trattare, i riflessi che si riverberano al di fuori di quell’aula di tribunale sembra esulino dalle finalità della richiesta statuizione giudiziale. Sicuramente, la dottoressa Fioretta non c’è andata leggera con i colleghi Caselli e Lo Forte e, anche se non tenuta ad alcuna forma di cortesia istituzionale nei loro confronti, la sua decisione, a nostro avviso, più che affermare l’innocenza dei due giornalisti assume le vesti di giudizio e monito sull’operato di altri magistrati che in quegli anni di sangue cercavano di ripristinare lo stato di diritto in una terra come la Sicilia, ancora oggi in lotta contro fenomeni di inaudita gravità. In merito, il Tribunale di Milano non è certamente quello territorialmente competente ad esprimersi, né tanto meno arbitro di un particolarissimo momento politico e giudiziario ancora non consegnato alla storia. (Stefano Cionini per NL)