Governo e Tlc: l’Italia ancora una volta al bivio tra l’internet mobile e il broadcast

Tutti i nodi sembrano venire al pettine per l’Italia delle telecomunicazioni dopo l’era berlusconiana. In pochi mesi si è passati dall’acquiescenza pressoché unanime verso un beauty contest che avrebbe regalato preziose frequenze ai soliti noti alla volontà generalizzata di rivoluzionare tutto il sistema per raggiungere un nuovo equilibrio.

Sostituire il concorso di bellezza con un’asta competitiva ormai infatti non basta più: sono intervenuti fatti nuovi, soprattutto dall’Europa. Intanto la conferma che le frequenze a 800 MHz (canali 61-69) saranno esclusivamente destinate, a livello continentale e a partire dal 2013, ai servizi dell’internet mobile, con la prospettiva di trovare altri 1200 MHz di banda entro il 2015. Poi l’incombere degli obiettivi della Digital Agenda, per il raggiungimento dei quali le tecnologie di trasmissione dati in mobilità di quarta generazione vengono ormai considerate alla stregua dei collegamenti in fibra ottica, come si evince anche dal recente intervento del Commissario UE Neelie Kroes al Mobile World Congress di Barcellona. Di fronte a siffatto entusiasmo verso la rete, che sembra ormai rappresentare l’ultima ancora di salvezza di un’Europa in crisi identitaria e non solo, un paese ancora tanto "televisivo" come l’Italia sembra essersi improvvisamente reso conto della propria arretratezza. E tuttavia ci sono segni di difficoltà nella ricerca di una soluzione che possa in qualche modo mettere rimedio a decenni di ritardi e gestioni "particolari". Il sostanziale silenzio del governo, cui fa da contraltare il fiume delle dichiarazioni in merito da parte di qualsivoglia soggetto interessato, si spera sia sintomatico di una presa di coscienza della complessità della situazione e di un tentativo di riflettere seriamente sul modo di risolverla, conciliando il più possibile gli interessi spesso contrapposti di tutti gli attori presenti sulla scena. L’impressione degli osservatori è che a questo punto ci sia bisogno di un vero e proprio miracolo. Intanto ci sono i grandi network televisivi nazionali che, orfani del beauty contest, meditano ricorsi e contestazioni per ottenere comunque i multiplex a loro dire mancanti (sono di pochi giorni fa le dichiarazioni di guerra di Giovanni Stella, AD di Telecom Italia Media). Poi naturalmente le emittenti locali, che puntano a recuperare qualche canale e/o qualche risarcimento in più dallo Stato, al quale chiedono di fare la voce grossa a Bruxelles contro lo spettro dell’”esproprio” della banda dei 700 MHz. Infine gli operatori tlc, forti del loro (vero o presunto) status di innovatori e alfieri dell’economia della rete, che vedono apparire all’orizzonte nuovi territori da conquistare. E naturalmente non è da trascurare l’esigenza, più volte (e forse frettolosamente) sbandierata, di ottenere risorse per le esauste casse statali dalla cessione di una risorsa pubblica quale è lo spettro radioelettrico. Negli USA, in parte alle prese con un problema simile, stanno esaminando la possibilità di fare due aste: una al ribasso, per la cessione delle frequenze da parte delle emittenti tv, e una al rialzo per la vendita agli operatori di tlc. Una soluzione che assomiglia a quella ventilata negli ultimi giorni in ambienti governativi italiani: mettere all’asta diritti d’uso per le frequenze "a termine" fino al 2017 ai network tv, e poi “ricomprarli” per cederli alle telco. Un’operazione dagli esiti finanziari incerti, che comunque potrebbe essere depotenziata dalla cessione di qualche canale alle locali e dai cronici problemi di coordinamento delle frequenze con i paesi confinanti: questioni che i precedenti governi avevano bellamente ignorato ma che ora, in una situazione di parzialmente ritrovata credibilità internazionale, diventano cruciali per sostenere l’immagine di un paese solidamente incardinato nelle regole comunitarie. In ogni caso in questo momento il comparto televisivo è quello che soffre di più, indipendentemente dalle dimensioni: è una crisi di immagine, che fa apparire il medium tv come simbolo del "vecchio" modo di fare comunicazione che si mette di traverso sulla strada del "nuovo", inevitabilmente legato alla rete e ai suoi protagonisti. Ma è anche una crisi dovuta all’incapacità di molte imprese di raccogliere le sfide rappresentate dalla contaminazione dei modelli e degli strumenti nella direzione dei nuovi media, dove niente è mai veramente vecchio o nuovo, ma tutto incessantemente si trasforma nel tempo. Certo si tratta anche di saper interpretare e gestire il cambiamento, cosa che nel nostro paese pochi sanno o vogliono fare, anche incoraggiati da una politica che finora ha preferito incentivare l’immobilismo piuttosto che l’innovazione. Ora però si apre una nuova fase di transizione: chi non sarà capace di rinnovarsi e fare progetti credibili per il futuro si troverà ben presto fuori dal mercato. (E.D. per NL)

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