Google crea dipendenza?

Nick Carr, giornalista e osservatore critico della rete, si interroga sull’inglobazione da parte del web delle tecnologie intellettuali e sulla reale funzione di internet come medium universale


Ogni tanto qualche critica contro corrente può servire a riflettere. E se quella di Nick Carr ha fatto il giro del mondo significa che, favorevoli o contrarie che siano le nostre posizioni in materia di dipendenza da web, qualcosa di rilevante per il mondo dei media e dei suoi più assidui frequentatori è stato detto. Il giornalista Carr, osservatore critico e meticoloso di internet e dei processi sociali che lo caratterizzano, in occasione della presentazione del suo ultimo libro, ha lanciato qualche interessante provocazione al pubblico (esteso, proprio grazie al web sociale, ben oltre la sala conferenza presidiata dal reporter) discutendo l’eventuale eccessiva centralità del web nella nostra vita quotidiana. Partendo dal presupposto secondo cui Google (in questo caso, sineddoche per internet) assomiglia sempre di più ad un cordone ombelicale con il quale ci colleghiamo al mondo dell’informazione e che, nella migliore tradizione trasformista, diventa mappa, orologio, calcolatore, ricercatore, radio, tv e telefono ad uso e consumo di chiunque ne sia provvisto, Carr si è chiesto se questo rapporto non provochi tanta dipendenza da renderci semplicemente stupidi. Secondo il giornalista americano, internet, inteso come medium universale e dal contenuto decisamente incommensurabile, sarebbe portatrice sano di un virus che colpisce l’intelletto umano, il cui risultato è quello di “disperdere la nostra attenzione e diluire la nostra concentrazione”. Ragion per cui l’internauta modello, per buona parte della giornata impegnato nelle sue avventure telematiche, potrebbe fare molta fatica a concludere la lettura di un buon libro. E non per mancanza di tempo, ma per capacità di concentrazione. Così nasce la domanda: potrebbero le nostre capacità intellettive regredire se il cervello viene abituato a fruire contenuti brevi ed essenziali, per i quali la quantità di concentrazione necessaria è decisamente ridotta all’osso? Di primo acchito la risposta sembra immediata: è ragionevole pensare che chi non tiene la mente allenata ne subisca l’impigrimento. Ma Carr punta il dito sul modo di leggere o di fruire un contenuto, più che sulla sostanza di quanto si è immagazzinato nella memoria. Questo per andare a lamentare l’esubero di velocità del web, che ci consente azioni multiple, ma probabilmente meno precise. Una tesi decisamente distante da una visione del tutto ottimistica del processo tecnologico, ma pur sempre curiosa per studiare l’etica della rete. Sempre che ce ne sia una e sia possibile, prima o poi, tracciarne le linee guida fondamentali. La critica di Nick Carr è parte del contenuto del suo ultimo saggio The Big Switch – Rewiring the World, from Edison to Google (letteralmente “Il grande interruttore – Ri-cablando il mondo, da Edison a Google”). (Marco Menoncello per NL)

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