Roma – No, gli avvocati di Google non sono riusciti ad uscire dal ginepraio delle normative italiane e nelle scorse ore è giunta la conferma: quattro dirigenti di Google saranno processati a partire dal prossimo 3 febbraio per diffamazione e violazione delle tutele sulla privacy. Il motivo è il clamoroso caso Vivi Down, che risale al 2006, quando fu pubblicato su Google Video una clip di un episodio di bullismo ai danni di un ragazzo down, in difesa del quale si è posta appunto l’associazione Vivi Down.
L’accusa formulata a carico dei quattro dirigenti dal pubblico ministero Francesco Cajani non lascia molti spazi di movimento. A suo dire, infatti, i responsabili di Google non hanno predisposto “il corretto trattamento dei dati personali come prescritto dal decreto legislativo 30 giugno 2003 numero 196 (e altresì più volte sollecitato dall’Autorità garante per la protezione dei dati personali)”. Inoltre, non avrebbero fatto nulla a livello organizzativo per affrontare “la problematica relativa alla protezione dei dati personali che sarebbero stati trattati in relazione a Google Video, che invece veniva volutamente lanciato come servizio di libero accesso dopo un’attenta analisi del mercato italiano”. Tutto per riuscire a “trarne profitto” con le inserzioni pubblicitarie.
La citazione diretta del PM giungerà nelle prossime ore ad Arvind Desikan, responsabile Google Video in Europa, a Peter Fleischer, responsabile per la Privacy e David Drummond, presidente del CdA. Il quarto uomo è Nikesh Arora, che a differenza degli altri è accusato di falsa notifica al Garante, che sarebbe emersa nel corso di un procedimento sulla denuncia di una donna che tentava di far cancellare certe notizie dalla cache di Google.
Google per il momento fa sapere di non aver ancora ricevuto notifica delle denunce ma ammette che quanto sta avvenendo potrebbe finire per costituire un preoccupante precedente. La ragione è ovvia: Google, così come pressoché qualsiasi fornitore di servizi Internet aperti al pubblico, ritiene che il responsabile della pubblicazione di un contenuto penalmente rilevante non sia chi offre lo spazio per la pubblicazione ma chi realizza quel contenuto e decide di pubblicarlo online.
Questa impostazione, però, secondo l’accusa cozza con la normativa italiana, che tira in ballo responsabilità di chi pubblica. A detta del PM, cioè, i quattro dirigenti avevano il dovere di impedire che la registrazione video di quegli abusi venisse pubblicata e rimanesse disponibile agli utenti per quasi due mesi, da settembre a novembre 2006.
Il “precedente” temuto da Google preoccupa anche gli utenti: qualora il processo portasse ad una condanna dei dirigenti dell’azienda, a rischio sarebbero da subito numerosissimi servizi oggi liberamente utilizzati da milioni di italiani. Lo stesso YouTube, il portalone di video sharing gestito da Google, potrebbe trovarsi in cattive acque. D’altra parte, se impedire la pubblicazione di un certo videoclip musicale o del brano di un film per ragioni di diritti d’autore può rivelarsi un compito alla portata di evolute tecnologie di filtering, ostacolare la pubblicazione di un video diffamante è tutto un altro paio di maniche. Non tanto perché la diffamazione può non essere palese nel video stesso, e dunque non riconosciuta, ma perché filtrare richiederebbe la “visione informata” di tutto ciò che viene caricato sul servizio da parte di un umano, un compito totalmente incompatibile con la quantità di materiale che circola sui moderni portali di sharing dei contenuti.