Il giusto processo si fonda necessariamente su chiarezza e sintesi: questa la tesi di partenza della relazione del Gruppo di lavoro sulla sinteticità degli atti processuali istituito presso il Ministero della Giustizia.
Il gruppo di giuristi, avvocati e magistrati coordinati dal Capo del dipartimento per gli affari di giustizia Antonio Mura, ha redatto il documento con l’obiettivo di elevare “sinteticità e chiarezza” a valori informanti gli atti processuali attraverso sia proposte di modifica normativa dei codici di procedura, sia investimenti nella formazione alla cultura di quei valori. Nell’introduzione alla relazione si legge che “sinteticità e chiarezza è divenuta così un’endiadi, in cui la prima è quasi sempre premessa alla seconda: ma è importante puntualizzare che la chiarezza dev’essere considerata il fine, mentre la sinteticità soltanto il mezzo per raggiungere quel fine”. La chiarezza è definita come un requisito che tende a soddisfare l’esigenza di rapidità e, soprattutto, di qualità della risposta giudiziaria poiché facilita la comprensione del pensiero. La sinteticità dovrebbe informare tanto i contenuti quanto la forma: nella redazione di tutti gli atti, anche i più compositi come le sentenze, è necessario possedere la “capacità di selezionare gli elementi essenziali alla funzione di quel particolare tipo testuale (e scartare quelli invece superflui) [e] di raggiungere un’espressione essenziale dei contenuti selezionati” La sinteticità, inoltre – come afferma il Consiglio di Stato (sez. III, 12 giugno 2015, n. 2900) – “non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l’ampiezza dell’atto che le veicola. La sinteticità è, cioè, un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole, da un lato,delle questioni da esaminare e, dall’altro, la consistenza dell’atto – ricorso, memoria, o, infine, sentenza – chiamato ad esaminarle”. I principi generali della relazione sono ampiamente condivisi dagli avvocati di tutte le branche del diritto: in molti ritengono che la sintesi sia una dote del professionista che sa selezionare ed organizzare gli argomenti in un pensiero ordinato. E’ dunque accolta con favore sia la proposta di modificare i testi di legge inglobando le istanze chiarezza e sinteticità, sia quella di dedicare ad esse specifica formazione teorica e pratica in più momenti del percorso professionale (studi universitari, scuola forense, formazione permanente, valutazione professionale dei magistrati). Meno consensi tra i professionisti delle aule per un altro punto del documento in questione: la tesi secondo cui una delle cause dell’allungamento insostenibile dei processi (che viola il principio di cui all’art 111 Cost) sarebbe l’eccessiva lunghezza degli atti. Secondo la generalità degli avvocati atti più brevi non risolverebbero affatto la questione dei tempi dei processi italiani, affetti da ben altri problemi strutturali sui quali si dovrebbe agire a livello legislativo in modo importante e sistematico. Tea le proposte della relazione c’è quella di introdurre, già nei corsi universitari, un equilibrio tra pratica e teoria con la lettura commentata di scritti “esemplificativi delle qualità di chiarezza e sinteticità ovvero delle opposte caratteristiche di prolissità ed oscurità” e con esercitazioni di argomentazione e redazione scritta di atti. È un’idea innovativa rispetto al sistema tradizione, ma che sarebbe certamente ben accolta nelle aule universitarie dove gli studenti chiedono da tempo un’offerta formativa che li prepari davvero la professione. (V.D. per NL)