Giustizia amministrativa, vicenda LCN. Quando fare il commissario ad acta non paga…

consiglio di stato
Nei processi, siano essi civili, penali o amministrativi, è spesso richiesto l’intervento di parti terze rispetto ai litiganti, utili a coadiuvare i giudici in diverse fasi del giudizio, come nel caso del Commissario ad acta, un funzionario pubblico nominato dal giudice amministrativo nell’ambito del giudizio di ottemperanza a cui viene conferito il compito di emanare i provvedimenti che avrebbe dovuto emettere un ente, che però si è rivelato inadempiente.
Ora una lunga e intricata vicenda giudiziaria, della quale la sentenza 992/2017 del Consiglio di Stato, sezione terza, rappresenta l’ultimo atto in ordine cronologico, rischia di minare la disponibilità dei professionisti a ricoprire l’incarico di Commissario quando richiesto dal Consiglio di Stato. La decisione è stata pronunciata in merito ad una istanza depositata dal Commissario ad acta con cui il medesimo richiedeva l’ottemperanza della sentenza 3814/2016 del Consiglio di Stato – sempre sezione terza – e, quindi, di vedersi corrispondere il compenso per l’attività svolta dalla parte soccombente di quel giudizio. Il più recente provvedimento del giudice, però, ha riservato una brutta sorpresa all’istante che, dopo aver atteso invano l’adempimento della parte, si è anche visto decurtare notevolmente il suo compenso ad opera del Consiglio di Stato e rischia di dover restituire le somme ricevute a titolo di acconto. Per comprendere le ricadute della sentenza in questione è necessario fare un passo indietro alla nomina del Commissario, avvenuta all’interno di un giudizio di ottemperanza nei confronti di AgCom (sent 6021/2013). L’autorità era ritenuta inadempiente rispetto a quanto stabilito dal Consiglio di Stato nella precedente sent. 4660/2012 che componeva la lite tra Telenorba S.p.a. ed il Garante in merito al piano LCN di numerazione automatica canali televisione digitale terrestre disposto con delibera AgCom, in particolare per l’assegnazione dei canali 8 e 9 – rivendicati dalla ricorrente pugliese – a MTV e Deejay TV. L’AgCom avrebbe dovuto rivedere la propria delibera, ma in mancanza è stata sostituita dal Commissario come ordinato dal giudice amministrativo: svolto il proprio compito, l’incaricato ha richiesto alla parte soccombente del giudizio, ossia l’AgCom, la corresponsione del proprio compenso per un ammontare di 90.000 €.
L’operato del Commissario avrebbe dovuto risolvere in via definitiva la lite, ma così non è stato: è intervenuta una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 1836/2016) che ha completamente sovvertito l’ordine stabilito dalle deliberazioni del Consiglio di Stato annullando senza rinvio la citata sentenza n.6021 del 2013 per difetto di giurisdizione, estrinsecatosi nel c.d. superamento dei limiti esterni della giurisdizione. Come si legge nelle premesse di uno dei numerosi provvedimenti di cui è costellata questa vicenda giudiziaria (sent. 3814/2016 Consiglio di Stato) <<La sentenza [delle SS.UU.] afferma che, in sede di adozione del nuovo Piano, l’amministrazione non potesse non tener conto del radicale mutamento del contesto tecnico e di mercato venutosi a creare per effetto del passaggio del sistema televisivo dall’analogico al digitale e che è materialmente impossibile esercitare un potere di indagine “retroattivo” alla luce dell’attualizzarsi dell’esigenza di procedere all’assegnazione della numerazione dei canali su di un presupposto tecnico fattuale irreversibilmente mutato che rende impossibile un agire amministrativo “ora per allora” (ossia la ricostruzione delle abitudini e preferenze degli utenti nel 2010)>>. L’annullamento senza rinvio ha salvato l’applicabilità della delibera 237/13/CONS e, come ulteriore conseguenza, ha invertito la posizione dei litiganti: alla luce di quanto statuito dalla Cassazione, è Telenorba la soccombente, quindi quella tenuta al pagamento del corrispettivo del Commissario. Sulla base di questo nuovo stato di diritto, AgCom si è rifiutata di pagare l’incaricato e si è mostrata interessata a richiedere la ripetizione dell’acconto del compenso già versato, pari a 15.000 euro. Il Commissario non ha avuto altra scelta che quella di rivolgersi al Consiglio di Stato per chiedere il pagamento del proprio compenso, questa volta a carico di Telenorba S.p.a., “nuova” soccombente del procedimento e per tentare di arginare i tentativi di AgCom di ripetere la somma versata. Nette le opposizioni di Telenorba e AgCom che possono leggersi nelle premesse della sentenza 992/2017 del Consiglio di Stato. L’emittente televisiva nelle controdeduzioni “non ritiene di dover effettuare alcun pagamento al Commissario ad acta, in ragione della nullità delle sentenze che hanno disposto la condanna al pagamento delle spese del giudizio di ottemperanza”. In subordine, qualora la domanda principale non fosse accolta, “Telenorba ha formulato a verbale una domanda volta ad ottenere la riduzione dell’entità del compenso e la sua determinazione in via equitativa”. AgCom, dal canto suo, ripropone la “tesi della natura indebita dei pagamenti effettuati – sulla base dell’annullamento della sentenza – e della doverosità della restituzione degli acconti già richiesta, in sede amministrativa, al Commissario ad acta”. Telenorba fonda la propria difesa sull’effetto espansivo esterno del giudicato, in base al quale la riforma o l’annullamento in cassazione della sentenza estende i suoi effetti ai provvedimenti e agli atti dipendenti: annullata la sentenza con cui è stato nominato il Commissario (la n. 6021 del 2013), nulla sarebbe dovuto a questi per la sua attività, svolta indebitamente. Per evitare aberranti conseguenze, nella sent.992/2017 il Collegio ha individuato un rapporto di dipendenza delle sentenze di ottemperanza pronunciate su ricorso del Commissario che richiedeva di essere remunerato (n.3814 e n.3815 del 2016) dalla sentenza delle SS. UU. Della Cassazione, validando così la pronuncia sulla liquidazione del compenso e la ricaduta di quest’onere su Telenorba S.p.a.
Il commissario deve essere pagato, dunque, ma la sentenza del Consiglio di Stato ridetermina equitativamente – e correttamente – il quantum per rapportarlo alle capacità economiche della “nuova” soccombente, per una somma complessiva di 50.000 euro (anziché 90.000 come richiesto). La ricostruzione appare farraginosa e un po’ forzata se si pensa che, a detta della Cassazione, non ci si sarebbe dovuti sostituire all’Agcom e – dunque – non si sarebbe mai dovuto nominare un Commissario; infatti, il provvedimento delle SS.UU. era teso proprio ad eliminare tale nomina. Tuttavia lo sforzo del Collegio è comprensibile visto che un misconoscimento dell’attività del funzionario avrebbe comportato un insopportabile pregiudizio del professionista che ha fornito una prestazione e l’incrinamento della fiducia verso l’istituzione che l’ha chiamata in causa. Del resto, è possibile esprimere qualche riserva su quanto statuito dalla Cassazione: se può essere vero che al momento della valutazione del Commissario ad acta non era possibile effettuare un’analisi “retroattiva”, è pure vero che l’attività di un funzionario è stata ritenuta necessaria perché le delibere AgCom difettavano di istruttoria e motivazione, come invece era stato richiesto dal Collegio. La fiducia in ogni caso traballa, visto il complesso artificio giuridico che si è reso necessario per rendere esigibile un credito da prestazione professionale, tra l’altro decurtato grandemente rispetto all’aspettativa iniziale, e visto anche che la sentenza 992/2017 stabilisce che “AgCom non è tenuta a corrispondere al commissario ad acta alcun’altra somma e non sussistono i presupposti per disporre una misura che possa impedirle di ripetere le somme anticipate”, quindi il Commissario rischia di dover restituire l’acconto versato da AgCom, unica somma ad oggi effettivamente percepita. (V.D. per NL)

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