di Franco Abruzzo
Era il 1990, settembre. Presidente dell’Ordine dal 15 maggio 1989, avevo avviato, sostenuto dal Consiglio, una forte attività sul fronte del lavoro “nero” nelle redazioni. La forza dell’Ordine è la delibera. Le delibere sul praticantato d’ufficio, condivise dal Procuratore generale dell’epoca, Adolfo Beria di Argentine, avevano creato un forte attrito con gli editori (soprattutto quelli di riviste tecniche di informazione). La reazione non tardò a concretizzarsi con la presentazione di 43 ricorsi al Tar Lombardia contro altrettante delibere di iscrizione d’ufficio. Chiesi un consiglio al nostro consulente legale, Cesare Rimini. La risposta fu lapidaria: “Affida tutto a Minieri. Vedrai che andrà bene”. Anche Beria di Argentine, giornalista in gioventù, fu categorico: “La scelta di Minieri è splendida”. Così, presentato da Rimini, conobbi Giuseppe Minieri, avvocato prestigioso circondato da stima e rispetto in tutti gli ambienti forensi nazionali ed europei, docente di diritto amministrativo, già allievo di Massimo Severo Giannini. “Presidente, che si fa?” fu la domanda che mi pose guardandomi fisso negli occhi. “Professore, attacchiamo. Abbiamo la Costituzione dalla nostra. L’articolo 41. il nostro contratto ha la forza di legge. Gli editori non assumono giornalisti professionisti, così non fanno praticanti, ma assumono giornalisti pubblicisti. I pubblicisti hanno due diritti quando lavorano a tempo pieno: l’applicazione del contratto e l’esame di stato per diventare professionisti. Il redattore pubblicista in un certo senso è praticante in attesa di accedere alla professione piena”. Ero torrenziale. Minieri, napoletano, quindi anch’egli passionale, dominava gli impulsi con la sua razionalità scientifica: Annuì. Risultato: 43 vittorie su 43 casi. Scoprimmo che la nostra intesa era perfetta sui valori della Costituzione da difendere ad ogni costo e in tutte le sedi.
A Minieri il Consiglio affidò nel gennaio 1997 la difesa, disperata, dell’Ordine contro il referendum di Pannella davanti alla Corte costituzionale. Tutto ci era contro. L’Ordine era isolato ed attaccato dall’interno (Fnsi e sinistra parlamentare). Il 1° gennaio era entrata in vigore la legge sulla privacy, che affidava ai Consigli dell’Ordine il ruolo di giudici disciplinari anche sui temi delle violazioni della riservatezza delle persone. Non avevamo titolo per costituirci in giudizio, ma lo facemmo ugualmente, trascinandoci dietro l’Ordine nazionale e l’Ordine del Veneto (guidato da Michelangelo Bellinetti). Minieri parlò e giocò una carta audace: la disciplina giuridica della professione ha contenuto costituzionalmente vincolato e, quindi, non può essere sottoposta a referendum. La Corte spese molte parole proprio su questo punto, sostenendo che “la presenza nella legge in esame di una norma sulla deontologia dei giornalisti, se favorisce indirettamente l’esercizio del «diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione» (art. 21 della Costituzione), non è sufficiente per far ritenere che l’ordinamento della professione di giornalista sia essenziale per la tutela di un diritto costituzionale”. Una decisione sbrigativa, drastica, assieme a una altra affermazione opinabile che “la professione di giornalista può esistere anche senza l’Ordine”. In quell’occasione il “professore” cercò di darmi coraggio: “Veda – spiegò – abbiamo gettato un seme. Sta a noi farlo germogliare. Bisogna parlarne continuamente, guadagnare amici, sviluppare una politica di comunicazione verso i parlamentari e i cosiddetti consiglieri del principe”.
Anche sull’Europa comunitaria la sintonia fu perfetta. Io sostenevo che l’Europa, con una direttiva del 1989, voleva che i professionisti regolamentati per legge fossero vincolati almeno al possesso di una laurea triennale. Minieri scrisse un parere avvincente secondo il quale l’Ordine regionale, autorità amministrativa, poteva disapplicare la legge nazionale a favore di quella comunitaria. Era il settembre 2003. Quel parere convinse il Ministro dell’università, Letizia Moratti, e il sottosegretario, Maria Grazia Siliquini, ad avviare la riforma della legge sulle professioni (dpr 328/2001) per includervi i giornalisti, obbligati al conseguimento di una laurea. Nel marzo 2006, la Corte dei conti bocciò il Dpr del Governo Berlusconi. Quel progetto è stato ripreso dal ministro Fabio Mussi e il 9 luglio 2007 la laurea in giornalismo è diventata legge. Pochi sanno che all’origine di questa svolta c’è un parere firmato dal professor Giusepe Minieri.
Il Tribunale di Milano, in sede amministrativa, bocciò una delibera dell’Ordine di Milano che aveva concesso a un cittadino egiziano l’iscrizione nell’Albo dei direttori tecnici. Il “no” era un atto amministrativo, non una sentenza. La Corte costituzionale non entrò nel merito, ma si limitò a dire che l’attività amministrativa del giudice non poteva essere portata al suo esame. Il caso, poi, si risolse con la legge Fini/Bossi, che consente agli stranieri, titolari del permesso di soggiorno, di esercitare l’attività di giornalista accanto ai cittadini italiani e a quelli comunitari.
Giuseppe Minieri era una persona paziente, capace di ascoltare e capire profondamente le ragioni del “cliente”. La sua carica umana e la sua sensibilità erano enormi. Lo sentivi amico, partecipe. La sua fantasia giuridica era inesauribile. Il diritto vive di interpretazioni audaci. Sono queste che producono progresso e che fanno camminare le leggi. Come quella interpretazione che Minieri dispiegò a favore dei giovani aspiranti avvocati massacrati dalle commissioni esaminatrici senza alcuna motivazione dei provvedimenti. Minieri aprì la strada, ottenendo dal Consiglio di Stato il diritto a fotocopiare i compiti fulminati dalle commissioni. La III sezione del Tar Lombardia (Francesco Mariuzzo presidente) aprì dei varchi, ammettendo all’orale molti giovani respinti alle prove scritte. Nel 2005 il Parlamento ha approvato la legge 168 che ha sancito un nuovo, fondamentale principio: il candidato che supera le prove orali, anche se l’ammissione è stata decisa da ordinanze dei Tar, “consegue a ogni effetto” l’abilitazione professionale. Una vittoria di Francesco Mariuzzo e di Giuseppe Minieri. Bisogna creare il clima favorevole alle novità diceva Minieri. Lo scandalo di Catanzaro agì da detonatore. Le ordinanze strappate da Minieri non solo al Tar Lombardia ma anche al Consiglio di Stato nel 1999 hanno creato quell’humus favorevole per la riforma rivoluzionaria del 2005. Ovviamente la legge 168/2005 riguarda tutte le professioni, anche i giornalisti eventualmente ammessi all’orale dal Tar Lazio.
Grazie, Professore, i giornalisti non dimenticano il suo alto impegno professionale e la sua passione civile!
Società italiana degli avvocati amministrativisti
“Giuseppe MINIERI ha portato nella sua multiforme attività il risultato delle doti di inventiva e spontaneità proprie della sua origine meridionale connesse ad un principio di efficienza assorbito a seguito della lunga permanenza a Milano. Avvocato sagace ed attento nella individuazione delle problematiche giuridiche e dotato di inventiva particolarmente vivace e produttiva, ha messo a frutto tali doti in una attività professionale organizzata nella quale i problemi non sono isolatamente considerati ma globalmente valutati in una prospettiva unitaria e completa. Tali caratteristiche gli hanno anche consentito di estendere la sua attività a settori di carattere più generale: iniziatore dell’attività della Sezione lombarda degli avvocati degli avvocati amministrativisti, che è stata sempre una delle più attive nell’attività associative, ha poi esteso la propria visuale al campo europeo, fondatore prima e poi Presidente dell’Unione Avvocati Europei, della quale anche recentemente ha patrocinato le più importanti manifestazioni associative. Figura completa e insigne di professionista che non ha limitato il proprio raggio di azione, ma ha costantemente stimolato il proprio agire verso settori più rilevanti, degno esempio di Avvocato amministrativista a tutto campo nel quadro della migliore tradizione”.