L’abuso di uno strumento processuale può determinare la condanna della parte vittoriosa a rifondere le spese del giudizio, posto che nel nostro ordinamento è il giudice a dover decidere – oltre che sul merito della controversia – anche sull’imputazione dei costi sostenuti dalle parti.
Per svolgere un simile compito, se il giudicante non intenda (come oramai accade nella maggior parte delle cause) compensare le spese, tra gli altri, anche il principio della soccombenza (in buona sostanza, chi perde paga) può costituire un valido criterio da tenere in considerazione. Insomma, a ben vedere, la decisione che in quest’ambito deve prendere l’Autorità Giudiziaria adita appare abbastanza libera ed aperta anche a nuove filosofie ermeneutiche. In proposito, appare illuminante la ricostruzione fornita dal Tribunale di Lamezia (Ordinanza 12/07/2010) che ha condannato alla refusione delle spese un’insegnante per avere richiesto in via d’urgenza il riconoscimento del proprio diritto ad essere preferita rispetto ad altri per l’assegnazione ad una determinata sede scolastica. Reclamo ritenuto legittimo per la corte territoriale, ma fatto valere con il rito sbagliato, in quanto anziché il procedimento ex art. 700 c.p.c., l’avvocato avrebbe dovuto azionare un giudizio ordinario. Il giudice, in questo caso, ha richiamato la regola in base alla quale chi vanta un diritto deve sempre prediligere la forma tradizionale del rito civile per ottenerne l’affermazione giudiziale ed eccezionalmente attingere dai procedimenti a cognizione sommaria. Difatti, nella questione deferita al magistrato calabrese è stato riconosciuto sì il requisito del fumus bonis juris , ma non quello del periculum in mora e, conseguentemente, la regolamentazione delle spese è stata impostata con connotati punitivi anziché ripristinatori. Si legge nel provvedimento che l’ordinamento nazionale ha ispirato la disciplina della condanna alle spese di giudizio ad una funzione di deterrenza, che “(…) non consiste nel voler precludere ai cittadini l’accesso alla giustizia statale; ciò contravverrebbe al diritto assoluto di difesa, costituzionalmente garantito, ma mira ad evitare un uso spregiudicato della giustizia, avviando giudizi per finalità meramente dilatorie, defatiganti o esplorative” (Cfr. Italia Oggi, 30/09/2010, p. 40). A questo punto, l’avvocato del ricorrente dovrà aspettarsi la rivalsa del cliente sul suo onorario, in quanto l’errata scelta di impostazione processuale, normalmente, spetta al legale. Ciò nondimeno, se il precedente si consolidasse nella giusriprudenza nazionale di merito, potrebbe venirsi a creare (posto che si decida nel merito e non si opti per l’inammissibilità del ricorso) la strana situazione in base alla quale chi è disposto a pagare un po’ di più ottiene giustizia prima di altri. (S.C. per NL)