L’impugnazione tardiva della sentenza di primo grado rende inammissibile il giudizio di gravame innanzi, nel caso specifico, alla Commissione Tributaria Regionale benché non siano stati notificati al contribuente l’avviso di trattazione e – successivamente – di deposito del dispositivo.
Il Supremo Collegio, nell’ambito della sentenza n. 19112/2010 dello scorso 06/09/2010, risponde senza esitazione nei termini appena esposti all’Amministrazione Finanziaria, ricorrente in forza di una statuizione favorevole al contribuente che lamentava vizi di conoscibilità insistenti sul procedimento di primo grado, introducendo appello avverso gli esiti del giudizio di prime cure, per giunta risultando in tale grado vincitore. Le eventuali nullità della sentenza resa dalla Commissione Tributaria Provinciale – nell’iter logico – argomentativo del giudice di terza istanza – devono essere opposte in secondo grado, ma non per questo forzando la disciplina dei termini d’impugnazione applicabile anche al Processo Tributario in forza del rinvio operato dall’art. 38, c. 3, del D.Lgs n. 546/1992 all’art. 327, c. 1, c.p.c.. Tale norma, infatti, impone il passaggio in giudicato di una sentenza (ovviamente in punto di merito, essendo differenti le procedure del giudizio di legittimità) decorso il “termine lungo” di un anno dalla pubblicazione della statuizione, fatti salvi i casi in cui la parte rimasta contumace dimostri di non aver avuto conoscenza del processo per nullità della notificazione del ricorso. In proposito, il criterio mutuato dal codice di rito civile, appare nell’esame compiuto da Piazza Cavour insuperabile. Gli Ermellini ritengono sul punto necessaria la conversione dei vizi di nullità del contraddittorio processuale (quelli che in buona sostanza opponeva il contribuente a sostegno dell’ammissibilità dell’appello tardivo) in motivi di doglianza insistenti sulla la decisione (in ambito tributario) del Collegio intervenuto, “secondo le regole e i termini dei mezzi di impugnazione” (Cfr. Cass., sent. n. 19112/2010). L’esercizio ermeneutico sollecitato nel giudizio di terzo grado, invero, restituisce rinnovato vigore ad un importante precedente offerto dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, contenuto nella sentenza n. 668/1992, a mente della quale “(…) il comma 1 dell’articolo 327 del codice di procedura civile codifica una regola del sistema delle impugnazioni che corrisponde ad un’esigenza di immutabilità delle pronunce giudiziali e, impedendone il perpetuarsi indefinito nel tempo della potenziale pendenza dei processi, si pone a garanzia della certezza e stabilità dei rapporti giuridici sui quali le pronunce stesse incidono” (Cfr. Cass., SS. UU., sent. n. 668/1992, in www.fiscooggi.it, 20/09/2010). In conformità a quanto argomentato nella pronuncia qui sommariamente esaminata, spetta, dunque, alle parti interessate dal procedimento giudiziale (posta, naturalmente, la conoscibilità della litispendenza) adoperarsi diligentemente per la cognizione delle vicende processuali al fine di esercitare appieno il diritto di difesa ed eventualmente denunciare vizi di legittimità del contraddittorio, senza perciò forzare le regole a presidio del rito. Confermato, quindi, il principio in base al quale il giudicato copre in ogni caso il dedotto ed il deducibile agli effetti dell’art. 2909 c.c., nelle differenti accezioni sulla base delle quali l’accertamento contenuto nella sentenza, oltre ad includere una sorta di cristallizzazione del regolamento degli interessi ivi contenuto, implica – di norma – l’esaurimento o la preclusione delle impugnative avverso la sentenza. (S.C. per NL)