Giudice sospende da professione due cronisti della “Voce del Canavese”. Giurisprudenza del caso

Un giudice del Tribunale di Biella ha sospeso per sei mesi dalla professione due giornalisti della Voce del Canavese, applicando la pena accessoria ad una condanna, con la condizionale, per diffamazione a mezzo stampa


da Franco Abruzzo.it

Immediata la protesta del loro direttore Liborio La Mattina. In un clima di attacco alla libertà dell’informazione – spiega il direttore del periodico – l’episodio è preoccupante. Il direttore e la redazione del giornale chiedono pertanto “una presa di posizione forte e chiara da parte dell’Ordine del Giornalisti regionale e nazionale, degli altri organi di categoria e del Consiglio Superiore della Magistratura cui si rivolgeranno non appena in possesso delle motivazioni di sentenza”. Valuteremo le motivazioni della sentenza – è la prima reazione di Sergio Miravalle, presidente dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte – così come appare è evidente che da parte del giudice non si vuole tenere conto del ruolo di autogoverno della categoria. Siamo di fronte a una sostanziale invasione di campo che la legge del ’63 assegna a questo organismo”. “La sospensione di sei mesi mi sembra – conclude – un provvedimento sicuramente discutibile. Ammesso che la condanna penale sia fondata, sarebbe stato più corretto che il giudice rimettesse all’Ordine la valutazione di una eventuale sanzione di tipo deontologia. Non dimentichiamo che una delle ragioni d’essere dell’Ordine è la correttezza dei rapporti tra giornalisti e cittadini”. (ANSA).

GIURISPRUDENZA (raccolta da Franco Abruzzo)

Quando scatta l’interdizione della professione. Nell’art. 31 Cp, secondo il quale ogni condanna per delitti commessi con abuso di una professione importa 1’interdizione temporanea della professione stessa, l’espressione “abuso della professione” va intesa nel senso di uso abnorme del diritto all’esercizio di una professione per cui è richiesta una speciale abilitazione, effettuato con l’intenzione di conseguire uno scopo diverso da quello considerato dal legislatore, seguita da un comportamento contra legem particolarmente grave sul piano soggettivo e su quello oggettivo, mentre la “violazione dei doveri inerenti ad una professione” presuppone gravi e ripetute lesioni dei principi di etica professionale; tali estremi difettano nel caso di diffamazione a mezzo stampa commessa da un giornalista in un articolo di critica ad una trasmissione televisiva e, di conseguenza, non si applica la pena accessoria in questione (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Giust. pen., 1984, II, 52; Giur. It., 1984, II, 52).
Per l’applicabilità della pena accessoria della interdizione della professione di giornalista non è sufficiente un isolato comportamento diffamatorio nel quale pure può ipotizzarsi la violazione dei principi di etica professionale sanciti nell’ordinamento della professione di giornalista (obbligo del rispetto della verità unitamente a quello dei doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede), ma occorrono gravi e ripetute lesioni dei menzionati principi, determinati da un comportamento corrivo e, quindi, produttivo di danno sociale. (Cass. pen., 3 giugno 1983; Riviste: Cass. Pen., 1984, 2190).
In caso di condanna per diffamazione a mezzo stampa consegue l’interdizione dalla professione per il giornalista che abbia commesso tale reato, in quanto, ove non volesse considerarsi abuso della professione il reato previsto dall’art. 595 Cp, risulterebbe comunque violato il dovere di “osservanza delle norme di legge dettate a tutela della personalità altrui” (art. 2 della legge n. 69 del 1963) e di conseguenza integrato il presupposto stabilito dall’art. 31 Cp. (Trib. Perugia, 19 giugno 1985; Riviste: Dir. Informazione e Informatica , 1986, 117, n. Pisa).
La sospensione cautelare dalla professione. Una cronista de “La Stampa” è stata sospesa il 22 ottobre 1998 dalla professione per due mesi con un’ordinanza del Gip della Pretura di Torino. La giornalista avrebbe reperito una fotografia spacciandosi, secondo l’accusa, per poliziotta. Il provvedimento, previsto dall’articolo 290 del Codice di procedura penale, è una “misura cautelare interdittiva”. La vicenda presenta aspetti penali e deontologici di rilievo, qualora i fatti dovessero trovare conferma in sede di rinvio a giudizio e di dibattimento.
Aspetto penale. L’articolo 290 del Codice di procedura penale prevede che il giudice possa “interdire temporaneamente all’imputato, in tutto o in parte, le attività ad esso inerenti”. L’articolo 31 del Codice penale, invece, stabilisce che “ogni condanna per delitti commessi con l’abuso di una professione o con la violazione dei doveri ad essa inerenti, importa l’interdizione temporanea dalla professione”. “L’interdizione da una professione – dice l’articolo 30 Cp – non può avere una durata inferiore a un mese né superiore a cinque anni”.
Risvolto deontologico. Il giornalista che si spaccia per poliziotto infrange le regole etiche fissate dall’articolo 2 della legge 69/1963 sull’ordinamento della professione; in particolare il dovere della lealtà e della buona fede. Viola, inoltre, anche il Codice di deontologia sulla privacy. Pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” del 3 agosto e in vigore dal successivo 18 agosto, il Codice è una norma di rango secondario al cui rispetto sono tenuti tutti coloro che svolgono la professione giornalistica e anche i cittadini che scrivono sui giornali pur non figurando nell’albo tenuto dall’Ordine.
L’articolo 2 del Codice di deontologia sulla privacy obbliga il giornalista “che raccoglie notizie” a rendere nota la propria identità, la propria professione e le finalità della raccolta, salvo che ciò comporti rischi per la sua incolumità o renda altrimenti impossibile l’esercizio della funzione informativa”. Il giornalista, inoltre, deve evitare “artifici e pressioni indebite”. C’è da osservare, infine, che l’articolo 9 della legge 675/1996 sulla privacy (oggi articolo 11 del Dlgs 196/2003) impone la raccolta dei dati “con correttezza e in modo lecito”, mentre la stessa legge esplicitamente qualifica come “dato personale” qualsiasi informazione che consenta di identificare un soggetto, quindi anche le fotografie.
Il Consiglio dell’Ordine dei giornalisti del Piemonte è tenuto ad aprire il procedimento disciplinare e a notificare questa misura all’interessata. Poi, però, deve fermarsi, perché l’accertamento penale è prioritario rispetto a quello disciplinare. Questo vincolo è imposto dall’articolo 58 della legge 69/1963. Emerge, quindi, che il Gip non abbia usurpato i poteri dell’Ordine. Il giudice ha svolto un’azione parallela e autonoma rispetta a quella dell’Ordine stesso; in sostanza una attività di “supplenza” in quanto l’Ordine del Piemonte non può adottare alcun provvedimento una volta avviata l’istruttoria penale. A questo punto si può discutere solo sull’opportunità del provvedimento cautelare, che è insolito in una fase processuale ancora molto lontana dalla sentenza di primo grado. (FRANCO ABRUZZO)

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