Report ci sarà, si sa. La Rai, dopo una tiritera durata qualche giorno, ha accettato di assicurare la copertura legale (cioè l’accollo dei costi per la difesa dei giornalisti della trasmissione nei procedimenti giudiziari) al programma di Milena Gabanelli.
Sulla conduttrice del programma in onda su Raitre, per ammissione diretta, pendono qualcosa come “una trentina di cause civili” (perlopiù per risarcimento danni da pretesa diffamazione). L’iniziale diniego dell’azienda alla coeprtura legale avrebbe provocato la certa chiusura del programma per disimpegno dei conduttori (che non avrebbero certamente avuto le risorse economiche per sopportare cotanta pressione), con conseguente danno informativo inestimabile ed il dubbio, sempre presente in questi casi, che si fosse trattato di un diniego “ad orologeria” (termine tanto in voga in questo periodo), per spazzar via una delle voci più libere e pungenti del panorama informativo televisivo. Il collega Giulio Genoino, su ItaliaOggi di venerdì 9 ottobre, però, suppone, calcolatrice alla mano, che un numero così alto di procedimenti giudiziari, quasi tutti per diffamazione, comporti dei costi – non probabili, ma certi – altissimi. Se un procedimento civile per diffamazione a mezzo stampa costa in media sei o settemila euro – calcola Genoino – e dura tre anni, la Rai dovrebbe sborsare qualcosa come 600mila euro l’anno solo per coprirne le spese legali. Francamente una cifra enorme, specialmente considerando che la Rai non è come “i Mecenati con le opere d’arte”, come sostiene il collega, bensì un mero agglomerato di nomine politiche, che tutto pare fuorché – rimaniamo in metafora – “un’opera d’arte”. Ora, se si volesse evitare di far sborsare alla Rai tanti soldi ma, allo stesso tempo, si volesse salvaguardare a tutti i costi l’informazione di qualità (e utilità) della Gabanelli, quali sarebbero le soluzioni? Genoino ne ipotizza due. Una, francamente, poco probabile ed anzi preoccupante; l’altra, probabilmente, percorribile. La prima soluzione sarebbe quella d’istituire un’avvocatura d’ufficio, di alto livello professionale (parametro assolutamente soggettivo ed opinabile) “per la tutela a spese pubbliche degli inquisiti per reati a mezzo stampa”. Cui prodest? All’interesse pubblico. Prospettiva superiore, quindi; sennonché spavetose sarebbero le ingereneze nella gestione per mano statale di un simile servizio (in sostanza, più che un’avvocatura d’ufficio – come evidenzia Genoino – una sorta di Avvocatura dello Stato, cioè il pool di giuristi che rappresenta e difende in giudizio l’amministrazione statale e, più in generale, tutti i poteri dello Stato quando svolgano attività sostanzialmente amministrative). Scartata la prima, la seconda ipotesi appare, per certi versi, percorribile. Si tratterebbe di vietare la richiesta di somme di denaro (spesso ingenti, e non raramente spropositate) come risarcimento per danni d’immagine causati da articoli o servizi a mezzo stampa – quindi illeciti civili – se prima non vi sia stata una condanna (evidentemente definitiva), in sede penale, per diffamazione o calunnia. Meglio ancora – aggiungiamo noi, legandoci a quanto già proposto nelle ultime settimane da altri soggetti – introdurre una sanzione economica ben più rilevante di quella di norma derivante dalla sanzione per la cd. “lite temeraria” prevista dal codice di procedura civile. La novella giuridica da noi (e da altri) immaginata potrebbe portare ad un meccanismo procedurale civile in base al quale chi avanza un’azione senza fondamento (cioè, tecnicamente, "temeraria") sia condannato a pagare, se non una cifra superiore (come invero avviene in altri ordinamenti giuridici), almeno un importo pari a quello invocato come preteso risarcimento danni. Se, infatti, oggi il politico o l’imprenditore di turno cita in giudizio il giornalista Caio, chiedendogli un risarcimento danni da 1 milione di euro, possono prospettarsi due scenari: la sua domanda viene accolta ed il giudice condanna il giornalista a risarcire il danno nella misura richiesta o in quella che riterrà equa; il giudice ritiene infondata la domanda del preteso diffamato e la respinge, condannandolo, al più, al pagamento delle spese processuali (e, nel caso rilevasse la presenza di una lite temeraria, ad un risarcimento di norma ridicolo). Tertium non datur. Se invece, motivando la proposta da noi abbozzata in precedenza, il deterrente della lite temeraria (art. 96 c.p.c. “Se risulta che la parte soccombente ha agito o resistito in giudizio con mala fede o colpa grave, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna, oltre che alle spese, al risarcimento dei danni, che liquida, anche d’ufficio, nella sentenza”) venisse legato alla richiesta di risarcimento danni avanzata, probabilmente il preteso diffamato ci penserebbe due volte prima di avviare un’azione che già sa non poter trovare successo e che in cuor suo ha la finalità sostanziale di inibire il giornalista facendogli quantomeno anticipare i costi di una difesa legale (comportamento intimidatorio che, invero, come tale potrebbe rilevare a livello penalistico). Si eliminerebbe, in tal modo, il “malcostume” di certa politica, imprenditoria e quant’altro, di richiedere risarcimenti ad ogni piè sospinto, per bloccare il cronista di turno, il suo direttore ed il suo editore, che preferiscono, alla fine, soprassedere per evitare rogne e spese rilevanti. Come ci fa argutamente notare il collega Genoino, esiste a questo riguardo una proposta di legge che giace da tempo immemore in Parlamento, senza che nessuno la tocchi perché troppo “retta”. Ma siamo in Italia, bellezza! (G.M. per NL)