La giurisprudenza è sempre più compatta nel riconoscere la facoltà di avvalersi del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti: l’orientamento è confermato anche dalla recente sentenza del Tribunale di Trapani che assolve Marco Bova, collaboratore dell’Agi e de il Fatto Quotidiano. Il giudice monocratico Piero Grillo ha assolto il giornalista pubblicista perché il fatto – cioè essersi rifiutato di rivelare la propria fonte durante un interrogatorio del pm, avvalendosi del segreto professionale ex art 200 c.p.p. – non costituisce reato, ribadendo così il principio per cui anche i giornalisti pubblicisti possono avvalersi del segreto professionale in virtù del fatto che esercitano l’attività di ricevere e riferire informazioni, proprio come i professionisti (cui la facoltà di opporre segreto professionale è riconosciuta espressamente dal codice penale).
La vicenda giudiziaria era stata scatenata da un articolo di Bova pubblicato proprio su Il Fatto quotidiano, riguardante i documenti giudiziari riservati trovati in possesso dell’ex Senatore PD Nino Papania: nell’ambito di un processo per voto di scambio a carico del politico, Bova era stato chiamato come persona informata sui fatti e quando si è rifiutato di rivelare chi gli aveva riferito le informazioni contenute nel suo articolo, è stato imputato del reato di false informazioni al pubblico ministero (art 371 c.p.). Pochi dubbi da parte del giudice: Bova deve essere assolto perché, in quanto giornalista, può e deve avvalersi del segreto professionale. Poco importa se si tratti di pubblicista o professionista, in entrambi i casi sarebbe tenuto a tutelare la propria attività (basata sul rapporto di fiducia con le fonti) e la sicurezza e incolumità della fonte. Il giudice aveva acquisito agli atti le pronunce di altre due Corti siciliane (Enna e Caltanissetta) che costituiscono un precedente sulla questione: si tratta di sentenze di assoluzione dei giornalisti pubblicisti Josè Trovato e Giulia Martorana, accusati di favoreggiamento per non aver rivelato la fonte di alcune informazioni relative ad un omicidio avvalendosi del segreto professionale. Nelle motivazioni della sentenza della Corte d’Appello di Caltanissetta si legge che ritenere non applicabile l’art 200 c.p.p. ai giornalisti pubblicisti sarebbe una discriminazione in violazione del dettato costituzionale. D’altra parte, era anche ora che le corti italiane si allineassero a quanto la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo aveva sancito già nel 1996 (caso Goodwin c. Regno Unito) fondando la facoltà di avvalersi del segreto professionale nella “libertà d’opinione e libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza considerazione di frontiere”. Il legislatore nazionale, però, non è mai intervenuto sul dettato dell’art 200 c.p.p. dal quale sarebbe opportuno espungere il termine “professionista” in riferimento ai giornalisti che possono avvalersi del segreto professionale. Questa mancanza causa ancora oscillazioni interpretative in giurisprudenza, ingenerando atteggiamenti erroneamente aggressivi dei pm e, talvolta, esponendo a rischio i giornalisti e le loro fonti.(V.D. per NL)