Giornalisti – Legge, parere del ministero della Giustizia e Corte suprema di Cassazione

L’esercizio dell’azione disciplinare è subordinato all’accertamento dei fatti in sede penale


dalla newsletter del sito Franco Abruzzo.it

di Franco Abruzzo

L’articolo 58 della legge professionale n. 69/1963 impone ai Consigli, prima di decidere le questioni disciplinari, di attendere l’esito dell’iter giudiziario sulle vicende oggetto di istruttoria penale. Questo indirizzo è stato confermato recentemente dalla Cassazione. In sostanza l’esercizio dell’azione disciplinare è subordinato all’accertamento dei fatti in sede penale.

In data 14 ottobre 1993 il Consiglio dell’Ordine dei Giornalisti della Lombardia ha posto all’Ufficio VII della Direzione generale Affari civili e libere professioni del Ministero di Giustizia un quesito relativo all’interpretazione dell’articolo 58 della legge n. 69/1963 sull’ordinamento della professione giornalistica. Questa la risposta (3 novembre 1993; prot. 7/52/5140) a firma del direttore dell’Ufficio VII:

“Con riferimento ai quesiti proposti con la nota n. 4495/93/FA/eg del 14.10.1993, si fa presente quanto segue:
l’art. 58 della legge 3 febbraio 1963 n. 69 sottopone l’esercizio dell’azione disciplinare ad un termine di prescrizione quinquennale decorrente, secondo il dettato della norma, dal compimento del fatto. Tale specifica previsione di legge impedisce ad avviso di quest’Ufficio, un’interpretazione tesa a valorizzare, quale termine iniziale, il momento della effettiva conoscenza del fatto-illecito da parte dell’organo competente all’esercizio dell’azione disciplinare e della concreta esperibilità dell’azione nei confronti del professionista.
D’altra parte si osserva, una soluzione siffatta, oltreché imposta dalle regole generali in materia di interpretazione (v. art. 12 disposizioni sulla legge in generale), risulta giustificata dall’interesse prevalente dell’incolpato a non subire procedimenti disciplinari per fatti commessi in epoca assai remota rispetto alla esigenza che determinati fatti lesivi della dignità professionale rimangono in concreto impuniti in conseguenza della mancata tempestiva apprensione da parte del Consiglio dell’Ordine.
Per quanto attiene poi alla configurabilità nelle iniziate inchieste penali di una causa interruttiva della prescrizione, ai sensi del II comma dell’art. 58 citata legge, si fa presente la totale irrilevanza di cause diverse da quelle espressamente individuate nei commi II e III dell’art. 58 della citata legge.
Con riguardo poi alla previsione contenuta nel II comma (“Nel caso che per il fatto sia stato promosso procedimento penale, il termine suddetto decorre dal giorno in cui è divenuta irrevocabile la sentenza di condanna e di proscioglimento”), si osserva che in base alle sostanziali modifiche intervenute nel campo processuale e alla distinzione introdotta nell’ambito del processo penale tra la fase procedimentale di natura investigativa e la fase processuale di natura giurisdizionale, il termine procedimento penale deve intendersi quale processo penale. Con la conseguenza che solo qualora le attività investigative del Pubblico Ministero siano sfociate in una richiesta di rinvio a giudizio, il termine di prescrizione di cui all’art. 58 è sospeso sino alla definizione del giudizio penale, stante l’opportunità di subordinare in tal caso l’esercizio dell’azione disciplinare all’accertamento della esistenza dei fatti compiuti in sede penale”.

Con la sentenza n. 14811/2000, la terza sezione civile della Corte suprema di Cassazione ha ribadito, occupandosi della vicenda di un medico sottoposto alla vigilanza del suo Ordine, che il termine di prescrizione “non decorre per tutto il tempo in cui si svolge il processo penale” sicché i cinque anni di tempo che l’Ordine di appartenenza ha a disposizione per prendere provvedimenti nei confronti del professionista “si calcolano dal momento in cui si esaurisce la fase giudiziaria” Si legge nella sentenza: “Va al riguardo premesso che l’art 51 Dpr n. 221/1950 (come l’articolo 58 della legge 69/1963 istitutiva dell’Ordine dei giornalisti, ndr) testualmente recita: “l’azione disciplinare si prescrive in cinque anni”. Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità non ha mai avuto occasione di pronunciarsi sul punto della decorrenza. Ora, pur non nascondendo la delicatezza ed opinabilità della questione, nel caso di specie appare decisivo il rilievo che, p er lo stesso fatto o per fatti connessi valutati in sede disciplinare, era stato aperto un procedimento penale, conclusosi con declaratoria di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Allora, in casi del genere, occorre dire che il termine di prescrizione dell’azione disciplinare non decorre per tutto il tempo in cui si svolge il procedimento penale. A questa conclusione conducono inevitabilmente due considerazioni: una di carattere pratico, perché opinando diversamente e considerando i tempi del processo penale, l’azione disciplinare verrebbe normalmente a prescriversi; l’altra, di natura strettamente giuridica imposta dal tenore dell’art. 44, 1^ co., Dpr 227/1950 – secondo cui il sanitario a carico del quale abbia avuto luogo procedimento penale è sottoposto a giudizio disciplinare per il medesimo fatto imputatogli, purché egli non sia stato prosciolto per la non sussistenza del fatto o per non averlo commesso – che imponendo all’organo disciplinare di att endere l’esito e le valutazioni del giudice penale, subordina l’esercizio dell’azione disciplinare (ove, naturalmente, sia stata promossa quella penale) alla conclusione del procedimento penale, all’esito del quale soltanto può cominciare a decorrere la prescrizione dell’azione disciplinare stessa”.

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Cassazione, SS.UU. civili, sentenza 08.03.2006 n° 4893. Il principio vale anche per i giornalisti (art. 58 legge 69/1963).
Avvocati: il processo penale sospende quello disciplinare sui medesimi fatti

Roma, 24 maggio 2006. Per effetto della modifica dell’art. 653 Cpp operata dall’art. 1 della legge n. 97 del 2001, applicabile in virtù della norma transitoria di cui all’art. 10 della predetta legge ai procedimenti in corso all’atto della sua entrata in vigore, l’efficacia di giudicato nel giudizio disciplinare della sentenza penale di assoluzione è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione “perché il fatto non sussiste” o “perché l’imputato non l’ha commesso”, a quella “perché il fatto non costituisce reato”.

Ne consegue che, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone, ai sensi dell’art. 295 Cpc, la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare. E’ questo il principio ribadito dalla Sezioni Unite civili della Corte di Cassazione con la sentenza n. 4893 depositata l’8 marzo 2006. (da www. altalex,com).

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Procedimento disciplinare dei giornalisti: cinque gradi di giudizio in un arco di 7 anni e 6 mesi

I Consigli dell’Ordine sono giudici amministrativi disciplinari (principio enucleabile anche dalla sentenza n. 505/1995 Corte Costituzionale) non solo rispetto alle norme deontologiche della legge professionale 69/1963, ma anche rispetto agli articoli 114 (comma 6)-115 del Cpp nonché rispetto al Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica (Dlgs 196/2003 e Gazzetta Uff. 3 agosto 1998).

La nostra giustizia disciplinare è praticamente in crisi dopo la sentenza n. 9694 del 4 luglio 2002 delle sezioni unite civili della Cassazione (i cinque gradi di giudizio, due amministrativi e tre giurisdizionali, devono esaurirsi in 7 anni e 6 mesi): “Il procedimento disciplinare nei confronti dei giornalisti è unico, se pure articolato in due distinte fasi: amministrativa, che si svolge dinanzi al Consiglio Regionale dell’Ordine e, in sede di ricorso, davanti al Consiglio Nazionale; e giurisdizionale, che si svolge dinanzi a “Sezioni specializzate”, istituite presso il Tribunale e la Corte d’Appello, e poi, dinanzi alla Corte di Cassazione. Pertanto il termine massimo di prescrizione dell’azione disciplinare, previsto in sette anni e mezzo dall’articolo 58 della legge n. 69 del 1963 deve intendersi riferito all’intero procedimento disciplinare, comprensivo delle predette due fasi”.

La conseguenza è disastrosa: pretendere che cinque gradi di giudizio possano esaurirsi in 7 anni e 6 mesi è impresa disperata. Il risultato è che tutti i procedimenti disciplinari rischiano di essere dichiarati prescritti. L’obiettivo è quello di far attribuire alla pendenza del procedimento avanti l’autorità giudiziaria un effetto interruttivo permanete (dei termini), come oggi già accade per i procedimenti relativi ad avvocati e notai.

Milano, 14 ottobre 2006

Avvocati: il processo penale sospende quello disciplinare sui medesimi fatti

“Per effetto della modifica dell’art. 653 cod. proc.pen. operata dall’art.1 della legge n. 97 del 2001 (norme sul rapporto tra procedimento penale e procedimento disciplinare ed effetti del giudicato nei confronti dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche), applicabile in virtù della norma transitoria di cui all’art. 10 ai procedimenti in corso all’entrata in vigore della citata legge, l’efficacia di giudicato – nel giudizio disciplinare – della sentenza penale di assoluzione non è più limitata a quella dibattimentale ed è stata estesa, oltre alle ipotesi di assoluzione perchè “il fatto non sussiste” e “l’imputato non l’ha commesso”, a quella del “fatto non costituisce reato”. Ne consegue che, qualora l’addebito disciplinare abbia ad oggetto i medesimi fatti contestati in sede penale, si impone, ai sensi dell’art. 295 cod. proc. civ., la sospensione del giudizio disciplinare in pendenza di quello penale, atteso che dalla definizione di quest’ultimo può dipendere la decisione del procedimento disciplinare”.(Cass. civ. Sez. Unite, 08-03-2006, n. 4893 (rv. 587171); FONTI Mass. Giur. It., 2006; CED Cassazione, 2006; RIFERIMENTI GIURISPRUDENZIALI ConformiCass. civ. Sez. III, 23-05-2006, n. 12123; Vedi Cass. civ. Sez. Unite, 17-11-2005, n. 23238; Cass. civ. Sez. Unite, 19-09-2005, n. 18451; Cass. civ. Sez. Unite, 10-09-2004, n. 18260).

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