dalla newsletter di Franco Abruzzo.it
Il Sole 24 Ore del 4/7/2008
Diritto & cronaca. Se non conformi. La Corte di Strasburgo riscrive i verdetti nazionali sulla diffamazione
di Marina Castellaneta
I giornalisti condannati in sede civile per diffamazione dai tribunali nazionali, con sentenze non conformi ai principi sulla libertà di espressione garantiti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, hanno diritto a ottenere il risarcimento del danno materiale, che equivale all’importo versato al diffamato.
È un passo avanti nella tutela della libertà d’informazione quello raggiunto dalla Corte europea nella sentenza depositata il 5 giugno 2008 (ricorso 15909/06, «I Avgi Publishing» e Karis), con cui non solo ha condannato la Grecia ma ha anche costretto le autorità elleniche a cancellare del tutto le conseguenze della condanna per diffamazione.
Si tratta di una decisione destinata ad avere un impatto anche economico sugli Stati che, nei casi in cui i tribunali nazionali condannino per diffamazione un giornalista, non uniformandosi alla prassi della Convenzione europea, saranno tenuti a risarcire direttamente il danno al reporter, equivalente all’importo corrisposto da quest’ultimo alla persona diffamata, incluse le spese processuali.
Poco importa che un simile giudizio possa essere considerato – come rivendicato dalla Grecia nella sua difesa – una ripetizione del procedimento litigioso e conduca a «un ribaltamento dell’autorità di cosa giudicata delle giurisdizioni interne». Quello che conta – ha osservato la Corte – è che ai giornalisti venga garantito il diritto di informare secondo l’articolo 10 della Convenzione, che include anche il diritto dei cittadini a ricevere informazioni.
Alla Corte europea si erano rivolti un reporter greco e il suo editore condannati a risarcire un altro giornalista, diventato deputato, con una somma di 58mila euro. Sia la Corte d’appello di Salonicco, sia la Cassazione avevano ritenuto che l’espressione «noto sfrenato nazionalista» utilizzata contro il politico, che aveva organizzato una manifestazione della destra contro il garante della protezione dei dati, fosse diffamatoria. La frase in realtà è, per la Corte, un giudizio di valore e non un fatto, non suscettibile di prova sulla base di elementi materiali.
Una critica aspra, certo, che però non deve essere valutata cercando di accertare la sua veridicità con riferimento al carattere e alla reputazione della persona offesa. Che peraltro – osserva la Corte – è una persona pubblica e quindi esposta più di altri a critiche.
La posizione di Strasburgo e quella dei tribunali nazionali diverge proprio sul peso da attribuire alle parole utilizzate in un articolo.
Per i giudici greci quello che conta, per arrivare alla condanna, è l’impiego di un’espressione non confortata dai fatti, mentre per la Corte europea le espressioni utilizzate devono essere collocate nel contesto dell’articolo, tenendo conto di alcuni fattori supplementari. Sbagliano quindi i giudici nazionali quando fondano la condanna per diffamazione, anche in sede civile, ricavando la volontà del giornalista di diffamare da una singola frase, senza valutare circostanze come «il contesto del caso, l’interesse del pubblico e l’intenzione del giornalista», elementi che possono giustificare «una dose di provocazione o anche di esagerazione».