L’Ordine dei Giornalisti, nell’esercizio delle proprie funzioni istituzionali, è tenuto a censurare – motu proprio – gli iscritti che si rendano protagonisti di pubblicazioni discriminatorie, ingiuriose e denigratorie indipendentemente dalla eventuale rilevanza civile o penale accertata dagli organi giurisdizionali competenti.
Su questo punto è granitico il Tribunale di Milano nella sentenza 13427/2009, resa su reclamo di un iscritto avverso la decisione del Consiglio Nazionale dell’Ordine che aveva confermato la sanzione di due mesi di sospensione dall’esercizio della professione irrogata dall’organo regionale, ad un giornalista reo di aver utilizzato espressioni lesive del decoro proprio e dell’Ordine stesso. Nel caso di specie, il cronista esprimeva le proprie convinzioni antisemite chiosando con espressioni di inaudita volgarità. I giudici milanesi, quindi, ribadiscono la funzione di vigilanza, anche a presidio della dignità e del decoro dell’intera categoria, devoluta agli organi professionali: è come dire che, se la stampa è il "cane da guardia" di governanti ed istituzioni, l’Ordine professionale tiene in mano il guinzaglio forzandolo sugli eccessi dei propri consociati. Fuor di metafora, il Tribunale di Milano individua il magistero deontologico degli organi di governo dell’ Albo svincolato da qualsivoglia risvolto giudiziario (precedente o successivo) della vicenda o della pubblicazione ancorata al pronunciamento. Sottolinea ulteriormente la statuizione di primo grado che, nei due procedimenti – l’uno innanzi agli organi dell’Ordine, l’altro nelle sedi giudiziarie interessate – la differenza d’oggetto si rintraccia negli stessi beni giuridici tutelati. Da una parte sta la deontologia professionale, ovvero le regole legate al metodo ed alle modalità con le quali si esercita la professione, dall’altra i diritti soggettivi (dignità, onore, reputazione) dei destinatari della critica. I due procedimenti sono tra di loro autonomi ed "…anche se è intervenuto un pieno proscioglimento in sede penale perché il fatto contestato non costituisce reato (o in sede civile, perché non ha natura o riflessi antigiuridici) – motiva il magistrato – "ciò non esclude la rilevanza dello stesso fatto agli effetti disciplinari e la consequenziale applicazione delle relative sanzioni" (cfr. Trib. Milano, sent. 13427/2009 in www.odg.it). La regola sopra enunciata, deve a nostro avviso poter valere anche a contrario: laddove il contegno professionale di un giornalista venga censurato giudizialmente, non necessariamente collide con un principio deontologico. A titolo esemplificativo, la disciplina inerente la segretezza delle fonti ci conferma proprio quest’assunto; infatti, il cronista costretto per ordine di un giudice a sciogliere il segreto professionale, sarebbe accusato sì di reticenza innanzi al Tribunale procedente se si determinasse per la preservazione della sua fonte, ma – alla stregua della normativa professionale – avrebbe probabilmente agito onestamente. Insomma, tirando le fila del nostro discorso, i giudici del capoluogo lombardo tengono a ribadire alcune regole di convivenza tra il Consiglio dell’Ordine nell’esercizio delle proprie facoltà sanzionatorie e quelli giudiziari, imponendo che si muovano su due differenti binari. L’unico punto d’incontro rinvenibile sta proprio nel giudizio di reclamo sui provvedimenti disciplinari irrogati dall’Ordine, con la precisazione che tale sindacato deve orientarsi esclusivamente sulla legge professionale valutandone la corretta applicazione. (Stefano Cionini per NL)