Stampa Democratica.it
Lo “stato” dell’informazione*
di Giuseppe Baiocchi
Secondo il presidente francese, infatti, l’informazione transalpina soffre di difficili condizioni di mercato (le sovvenzioni pubbliche non bastano più) e occorre dichiarare guerra “all’immobilismo, al corporativismo e alle cattive abitudini”. Per questo ha riunito le intelligenze e gli operatori del settore perché in due mesi si individui la strada per uscire dalla crisi con l’obiettivo di tutelare e rafforzare il pluralismo e far diventare la stampa “redditizia”, che è “il modo migliore per essere indipendenti”.
Vasto programma e vaste ambizioni: e tuttavia un modo “decisorio” per non sfuggire al problema. Un problema che è largamente comune anche in Italia, dove però chi potrebbe muovere le acque è paralizzato per sua stessa ammissione dai conflitti di interesse (ce ne è uno gigantesco, ma non è l’unico e nemmeno isolato).
Eppure l’informazione ha un bisogno disperato di cambiare: è già mutata in forme epocali per gli strumenti, per la globalizzazione, per quel “sottofondo” mediatico che costituisce ormai la perenne colonna sonora (e di immagine) della nostra società e che talvolta si trasforma in un vero e proprio frastuono che lascia l’opinione pubblica intontita e smarrita.
Proprio in questo contesto si manifesta acuta più che mai tra i cittadini l’esigenza crescente di un buon giornalismo: che selezioni le notizie, che ne faccia sintesi chiara e completa, che ne stabilisca la gerarchia di rilevanza, che ne espliciti il significato recondito, che offra il pieno ventaglio di interpretazioni; in modo che il lettore possa formarsi compiutamente un’opinione libera e informata.
Lo segnala con forza una recentissima ricerca sullo “stato del giornalismo” condotta dal centro Astra di Enrico Finzi e presentata nei giorni scorsi all’Università Statale di Milano. Ma se il desiderio di informazione è sentito e diffuso (e crescerà in misura rilevante nei prossimi anni, a partire dal 2012, anche per i media non tradizionali) , la fotografia che gli italiani fanno della realtà attuale è spietata e impietosa. Infatti, secondo il largo campione interpellato dai sociologi, per il 68 % i giornalisti sono bugiardi, per il 60 % sono incompetenti, per il 52 % “non sono indipendenti”.
E ancora: i giornalisti non hanno eticità (64%), sono ansiogeni (62%) e non hanno rispetto per gli altri (53 %). In sostanza il giudizio del campione (rappresentativo della popolazione italiana sopra i 15 anni di età) esprime per il 55 % una valutazione negativa, se non pessima.
Ma come si è arrivati a questo godere di “cattiva stampa” che è il tragico contrappunto dell’esigenza insopprimibile di una informazione “seria e rispettosa” e che “aiuti soprattutto a capire” ? Sembra evidente che stiano venendo amaramente al pettine i nodi irrisolti di una professione che ha via via perduto la sua “anima”, oltretutto sorpassata da una innovazione tecnologica tanto impetuosa quanto onnicomprensiva. Ne è spia la difficoltà, se non la paralisi, sulla quale si arena il negoziato per il contratto nazionale della categoria, scaduto da ben quattro anni. Lì, con 18 inutili giorni di sciopero, si è schiantata la Federazione della Stampa (o almeno lo storico vertice di maggioranza del sindacato) che, accecata dal pregiudizio ideologico, ha privilegiato le ragioni dell’appartenenza e dello schieramento, anziché il confronto riformista sulla realtà in rapida trasformazione.
Ma le responsabilità sono anche e pesanti degli editori (quasi tutti “impuri”). Che hanno privilegiato redazioni docili e conformiste (all’insegna del “politically correct” genericamente “de sinistra”) e che non disturbassero il vero nuovo “dominus”, e cioè la pubblicità. Per anni l’unica automobile che si poteva liberamente criticare era la Moskvitch, per anni le collezioni degli stilisti erano e sono tutte “meravigliose”, per anni i maghi della finanza sono stati contrabbandati per le vere guide del Paese. Cosicché oggi, per citare tutt’altro campo, diventa persino difficile prendersela con quel supponente di Josè Mourinho, che accusa i giornalisti di “suggerirgli ogni volta la formazione giusta, ma solo quando la partita è finita”…
E, non a caso, la ricerca citata segnala come nel breve volgere di un quindicennio l’efficacia della pubblicità si sia completamente dimezzata. Ovvero un’impresa deve investire il doppio del 1992 per ottenere gli stessi risultati di penetrazione sul mercato. Allora si comprende come l’informazione supina e “dopata” non serva nemmeno più. Se ne è accorto anche chi a lungo è rimasto sulla tolda di comando dei grandi quotidiani. Nel libro appena uscito (“L’informazione che cambia” – Editrice La Scuola), Ferruccio De Bortoli riconosce che “siamo diventati servi e concubini del potere”. E ritiene “insopportabile” il clima “da terrazza romana” con quella complicità compagnona tra politici e giornalisti che si fa “casta” distaccata dalla realtà.
Forse allora sarà il caso di rivalutare le figure scomode che hanno predicato nel deserto. Precursore Walter Tobagi che, preoccupato dell’instaurarsi di un “pensiero unico” e degli intrecci incestuosi con l’economia, ebbe il coraggio di battersi contro il conformismo a viso aperto (pagando con la vita, facile bersaglio del terrorismo rosso). E chi, nel suo solco, ha sempre sostenuto che andava premiata e tutelata l’autonomia e l’indipendenza del singolo giornalista che avrebbe offerto in cambio rigore culturale e onestà intellettuale. E che ogni cedimento su questo terreno avrebbe comportato non soltanto lo svilimento della professione, ma la perdita di redditività. Alla lunga, e adesso drammaticamente si capisce tra i cocci di una credibilità perduta, l’autonomia e l’indipendenza del singolo giornalista è un valore che“conviene”: “conviene” alla qualità del prodotto e alla sua positività economica, “conviene” alla trasparenza del mercato, “conviene”, perché no, alla democrazia e alla civiltà complessiva di un Paese.
Ah, se comparisse all’orizzonte (e senza conflitti di interesse) un nostrano Sarkozy.!…
*Articolo pubblicato su “Liberal” il 16 ottobre