Giornalismo e internet: l’Italia non è un paese per blogger

Un esercito di aspiranti giornalisti scrive su internet, ma la normativa italiana è ancora ferma in tipografia. L’arretratezza (e a volte anche un’avversione dettata da ignoranza) della politica italiana rispetto alla realtà della comunicazione in rete è evidente anche nel campo dell’editoria.

Qui, infatti, chi decide di pubblicare online si trova di fronte ad una legislazione lacunosa e a volte contraddittoria. Norme che alla fine tendono a frenare l’innovazione piuttosto che a stimolarla. La legge sulla stampa risale al 1948, quella sull’ordinamento professionale dei giornalisti al 1963. Dal punto di vista delle tecnologie della comunicazione, una o due ere geologiche. Si è tentato poi di metterci una pezza con la Legge 62 del 2001, ma il risultato non è stato dei migliori, avendo in sostanza operato un’estensione del concetto di prodotto editoriale anche al settore dell’informazione digitale, ma rimanendo ancorati alle vecchie normative per tutto il resto. Così sono ancora in corso dibattiti tra giuristi e non in cui si cerca di capire come applicare a un sito internet concetti come quello di “stampa” (intesa come riproduzione tipografica, di cui alla legge del 1948), “luogo di pubblicazione”, “periodicità”. E querelle infinite tra chi sostiene che l’informazione via web va ricondotta alle stesse regole di quella tradizionale, chi chiede che si distinguano i siti amatoriali da quelli professionali e chi in nome della libertà della rete invoca l’affrancamento da ogni burocrazia. Chi fa le spese delle mancanze legislative non sono solamente gli editori, ma anche i produttori di contenuti, ovvero i blogger o gli esponenti del cosiddetto “citizen journalism”, che nel nostro paese fanno realmente fatica a farsi strada nel mondo della comunicazione “mainstream”, dominato dalle testate tradizionali e dalla televisione. E qui entra in gioco l’Ordine dei giornalisti, peculiarità tutta italiana, considerato spesso il simbolo di un arroccamento teso a conservare privilegi piuttosto che un sistema di garanzia a tutela della qualità della professione. Una barriera d’ingresso che ha contribuito a scavare un fossato culturale tra “vecchi” e “nuovi” giornalisti, i primi “istituzionalizzati” nella stampa o nella TV e legati a un modello di informazione unidirezionale dall’alto verso il basso, i secondi esclusi dalle logiche dei grandi media, ma proprio per questo più agili e veloci, abituati al confronto e alla comunicazione bidirezionale tipica della rete. Una distinzione probabilmente fittizia e poco realistica. Ma è indubbio che i protagonisti di questo nuovo modo di fare giornalismo sono per la maggior parte giovani che meriterebbero qualche possibilità in più di trasformare la propria passione in impegno professionale. Il confronto con le realtà degli altri paesi è impietoso: negli USA, ad esempio, lo status di blogger è ormai equiparato a quello di giornalista tout-court e nelle redazioni le due figure professionali tendono a fondersi in una forma nuova, più aderente all’evoluzione delle nuove modalità e canali attraverso i quali viene costruita e diffusa l’informazione. Anche se è ben presente, e piuttosto controverso, il dibattito sull’attendibilità e la qualità di tutto ciò che proviene dalla rete. Sarebbe quindi necessario mettere mano alla normativa in senso più coerente ed esaustivo, o magari avere il coraggio di adottare soluzioni drastiche (come abolizione dell’Ordine). Considerata però la preparazione dell’attuale classe politica su questi temi, non è certo che la soluzione più proficua sia quella di evocare l’ennesima “riforma del settore”. Forse è il caso di attendere tempi (e legislatori) migliori. (E.D. per NL)

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