Qualcuno insiste a dire che con l’avvento di internet non c’è più bisogno di filtri e intermediari: tutti possono informarsi e informare su tutto, nella massima libertà e senza l’opera di selezione, già di per sé sospetta, dei media tradizionali.
Secondo i fautori di questa visione, gli oscuri criteri con cui le redazioni giornalistiche filtrano le notizie sono sinonimo di scarsa trasparenza e volontà di indirizzare e condizionare le opinioni dei lettori, secondo le direttive di poteri economico-politici più o meno occulti. Di sicuro internet ha cambiato completamente e irrimediabilmente i circuiti attraverso i quali circolano le notizie su ciò che succede nel mondo. I professionisti dell’informazione giornalistica si sono visti improvvisamente scavalcare da milioni di citizen journalist che dai luoghi più remoti del pianeta riversano in rete in tempo reale, attraverso blog, forum e social network, i propri reportage su ciò che succede a casa loro. Mentre però la quantità delle informazioni e degli strumenti per diffonderle è aumentata esponenzialmente, le possibilità di ricezione dei fruitori sono rimaste più o meno invariate, il che ha inevitabilmente portato al sovraccarico dei flussi informativi. Non solo, ma ci si è presto resi conto che non tutto ciò che proviene dalla rete è di per sé importante, urgente e soprattutto autentico. E che sovente non è facile discriminare il grano dal loglio. Ed ecco allora ritornare in auge selezionatori, classificatori, ordinatori del caos digitale che, sotto le luccicanti spoglie di start-up tecnologicamente avanzate, paradossalmente ci rivendono per nuovo quello che il buon giornalista ha sempre saputo fare di mestiere: l’approfondimento e la verifica delle fonti. E, cosa anche più singolare, una gran quantità di redazioni tradizionali si affida ormai a questi servizi per confezionare il proprio prodotto informativo, sfruttando di fatto una miriade di “inviati inconsapevoli” che con i loro tweet, post, foto e video mandati in rete contribuiscono a costruire cronache, commenti e inchieste su testate come il New York Times o Al Jazeera. Difficile sostenere che strumenti di aggregazione come Storify o Keepstream, per quanto “intelligenti” siano o si dichiarino, possano sostituirsi al tradizionale lavoro di verifica sul campo. Eppure è ciò che sta di fatto succedendo: molti giornalisti non si occupano più dei fatti reali, ma di ciò che se ne dice in rete. O magari della selezione appositamente preparata da un gruppetto di tecnologi in un loft di San Francisco. Una beffa per i teorici della disintermediazione, un campanello di allarme per chi ancora crede nell’etica del giornalismo. (E.D. per NL)