Stiamo probabilmente assistendo ad una transizione importante nelle politiche di gestione dello spettro radioelettrico in Italia.
Siamo appena usciti da un lungo periodo durante il quale protagonisti dello scenario delle “frequenze” sono stati quasi esclusivamente i broadcaster, dal “far west” degli anni ottanta alla “regolarizzazione” dei novanta fino alla “rivoluzione” del digitale di inizio millennio. Le virgolette stanno ad indicare ovviamente la convenzionalità di queste definizioni di comodo, usate spesso come paravento per dissimulare una politica dagli orientamenti ben precisi. Nel frattempo, sono arrivate internet e la telefonia mobile. Due mondi che sono rimasti per lungo tempo separati, il cui sviluppo non ha influito, se non marginalmente, sulla distribuzione delle risorse spettrali. Tutto ciò fino alla nascita degli smartphone: la diffusione di dispositivi mobili intelligenti che presuppongono l’accesso in mobilità ad internet, e la conseguente esigenza di una rete mobile in grado di veicolare una larghezza di banda di molto superiore a quella necessaria per garantire telefonate o SMS, ha scatenato la guerra per la conquista dello spettro da parte degli operatori. Una guerra che, negli anni dello sviluppo delle tecnologie 3g UMTS (le uniche realmente abilitanti per un efficace accesso alla rete) ha visto l’Europa procedere all’avanguardia, e i governi nazionali ottenere consistenti vantaggi per le proprie finanze, grazie alle numerose aste di aggiudicazione delle licenze per l’utilizzo delle porzioni di banda che si sono rese man mano disponibili. Nel frattempo il mercato è stato liberalizzato, e molte delle compagnie telefoniche ex-monopoliste sono diventate realtà multinazionali, in costante crescita grazie allo sviluppo tumultuoso del web e dei servizi online. Con il ruolo centrale ormai assunto dalla rete nello scenario economico internazionale, sia le suddette telco che i grandi fornitori di servizi over-the-top come Google, Amazon o Facebook hanno formato lobby la cui potenza è cresciuta in maniera inversamente proporzionale a quella in irreversibile declino dei broadcaster, esercitando un’influenza sempre maggiore nei confronti dei governi e dei regolatori nazionali e comunitari. Per di più l’Europa, a causa della crisi e della propria elefantiasi burocratica, si è lasciata sfuggire la leadership del settore delle telecomunicazioni mobili avanzate: la quarta generazione (LTE e simili) è arrivata prima negli USA e in Estremo Oriente. Così oggi le istituzioni comunitarie spingono sui governi perché si favorisca in tutti i modi il recupero del gap perduto. Di fronte a previsioni sempre più impressionanti circa la crescita del traffico dati su rete mobile, la gestione dello spettro radio è sempre di più un fronte aperto, a maggior ragione in un paese come il nostro, dove la rivoluzione è arrivata apparentemente inaspettata, sconvolgendo consuetudini e rapporti di forza consolidati. Dopo un primo periodo dove si è cercato di far passare l’idea di una rivoluzione digitale che sarebbe arrivata attraverso la televisione (chi si ricorda i famosi “servizi interattivi” del DTT su modem a 56K?) siamo passati, in nome del progresso, ad applicare con inusitata rapidità le risoluzioni europee, mettendo all’asta la banda degli 800 Mhz appena assegnata alle malcapitate televisioni locali. Già in quell’occasione si capì che gli equilibri del potere stavano cambiando, pur con grosse riserve a favore (dei soliti noti) del broadcasting. Ora però pare proprio che il processo volga alla fine: le nostre istituzioni più direttamente coinvolte (Ministero dello sviluppo economico e Autorità per le garanzie nelle comunicazioni) stanno ormai dirigendo apertamente i propri sforzi verso il nuovo traguardo: riservare sempre più risorse frequenziali all’internet mobile, ovvero agli operatori di telecomunicazioni. Durante un recente convegno svoltosi alla Camera dei Deputati, organizzato dal gotha dei produttori mondiali di hardware per dispositivi mobili (Alcatel-Lucent, Ericsson, Huawei, Qualcomm) erano presenti tutti i massimi esponenti della politica e della pubblica amministrazione di settore, a testimoniare l’ormai evidente cambio di paradigma. Alle consuete dichiarazioni sulle sempre crescenti porzioni di spettro necessarie allo sviluppo dell’internet mobile (Mario Frullone – FUB: “Alla banda larga mobile in Italia servono 500 Mhz”), si sono aggiunte esternazioni e valutazioni circa due nuove parole d’ordine: “spectrum review” e “licensed shared access” (LSA). Con il primo termine si allude ad una revisione dell’attuale allocazione delle risorse frequenziali ai diversi soggetti, alla ricerca di porzioni di spettro sottoutilizzate. La seconda invece si riferisce alla possibilità di condividere bande di frequenza già assegnate, ma poco utilizzate, tramite un meccanismo di accordi tra operatori. Ai fini di una possibile revisione dei criteri di assegnazione delle frequenze, che la Commissione Europea si appresterebbe a predisporre, Mise e FUB starebbero procedendo all’ennesimo censimento che dovrebbe “fotografare” l’attuale situazione. Su LSA invece, le posizioni dei regolatori non sembrano essere allineate. Agcom, sull’onda di un entusiastico rapporto commissionato dai produttori di hardware circa i possibili risparmi realizzabili tramite l’utilizzo di frequenze condivise, propone l’attivazione di un tavolo tecnico sull’argomento, con la partecipazione del Mise e del Ministero della Difesa (principale incumbent italiano su gran parte dello spettro radio). Ma sono gli stessi Ministeri interessati a frenare l’entusiasmo, soprattutto considerato che a livello europeo si parla di LSA per la banda 2,3-2,4 Ghz, che in Italia è assegnata in minima parte alla Difesa ma soprattutto a una pletora di altri soggetti privati con i quali non sarebbe certo facile negoziare possibili accordi di condivisione. Una posizione che trova l’appoggio degli operatori: questi in generale preferirebbero, com’è ovvio, avere a disposizione in esclusiva nuove bande licenziate piuttosto che dover cercare intese, in condizione di ospiti e probabilmente a caro prezzo, con altri soggetti, pubblici o privati che siano. Per questo gli sviluppi a breve termine prevederanno molto più probabilmente l’assegnazione in esclusiva ai carrier dell’internet mobile della cosiddetta banda “L” (1452-1492 Mhz) per il supplemental downlink. L’impressione è che, comunque, le iniziative vengano prese a traino degli interessi e delle pressioni di uno o più settori industriali, senza una chiara visione politica. Una visione che dovrebbe invece essere d’obbligo, in una questione che riguarda direttamente il futuro non solo delle TLC ma di tutta l’economia, ormai in larga parte digitalizzata. Curiosamente, tra l’altro, in tutta la kermesse non sembra sia stato fatto cenno alle prospettive della banda di frequenze per noi più problematica, ovvero quella dei 700 Mhz, che nel 2015 (che è l’anno prossimo, mica tra un decennio!) dovrà essere assegnata anch’essa, a statuto primario o co-primario, alla banda larga mobile. Il problema di come far convivere la nostra consistente riserva indiana di televisioni via etere con l’invasione dei nuovi cavalieri dell’innovazione non sembra essere presa granché in considerazione, anche se evidentemente non c’è molto tempo per trovare soluzioni praticabili. Anche questo è probabilmente un segno dei tempi, anche se appare evidente che il “nuovo che avanza” imporrà ben presto un cambio di passo nell’ingessata amministrazione italiana dello spettro radio. (E.D. per NL)