Fisco, abuso del diritto. La Cassazione frena sulle ristrutturazioni delle grandi imprese

L’applicazione della clausola antielusiva che la giurisprudenza ha letto tra i principi fondanti del nostro ordinamento giuridico, contestualizzandola nell’ambito dell’art. 37-bis D.P.R. n. 600/1973, ha recentemente ricevuto una prima cautela a tutto vantaggio dello strumentario contrattuale a disposizione per la ristrutturazione di gruppi d’imprese.

La sezione tributaria della Corte di Cassazione si è in proposito recentemente pronunciata con la sentenza n. 1372 del 21/01/2011 (seguono brevi stralci) nella quale respingeva le ragioni avanzate dall’Agenzia delle Entrate alla quale era stata opposta un’operazione di fusione per incorporazione che caricava la società incorporante di interessi passivi su prestiti concessi da terzi all’incorporata per finanziare l’intero capitale impiegato in una ristrutturazione infragruppo. L’Ufficio nell’occasione aveva ritenuto la natura elusiva dell’operazione “(…) in quanto volta all’abbattimento del reddito attraverso l’assunzione dei relativi costi (…)”, laddove il medesimo risultato poteva essere raggiunto attraverso la fusione tra le due imprese coinvolte, con maggiore soddisfazione per l’Erario. Il principio che veniva applicato dall’Amministrazione nell’accertamento impugnato appariva esso stesso un abuso dell’"abuso del diritto” che inevitabilmente assecondava il principio (invero poco liberale) in base al quale le aziende – nel valutare il negozio giuridico da utilizzare per attività del genere – sembrava dovessero uniformare la propria scelta al criterio della minore convenienza economica, in favore di quello della massima tassazione possibile. Ovviamente, lo stop della Suprema Corte altro non poteva che agevolare una doverosa riflessione sul tema dell’elusione fiscale, argomento che ultimamente il Fisco sembrerebbe utilizzare con il precipuo scopo di fare cassa, attraverso applicazioni fin troppo audaci. Nella motivazione del Collegio, infatti, si enucleavano taluni concetti sui quali merita una – seppur breve – analisi. Premettendo che “(…) la strategia sul mercato dei gruppi di imprese non può essere valutata come quella dell’imprenditore singolo e cioè non deve essere finalizzata al conseguimento di una redditività in tempi brevi”, la Cassazione operava, quindi, un primo importante distinguo che probabilmente tornerà comodo ai giudici ai fini del corretto inquadramento fiscale delle operazioni finanziarie poste in essere da grandi imprese per quanto concernente la giustificazione di particolari schemi contrattuali utilizzati. Nell’indicare questa prima linea giuda, il Collegio adito proseguiva raccomandando – ai fini dell’individuazione dell’abuso del diritto – una preliminare verifica che permetta di stabilire se l’operazione all’esame degli accertatori possa essere sussumibile nell’alveo della ordinaria logica di mercato. In merito, la Suprema Corte riteneva di dover escludere attività elusive sulla scorta della compresenza non marginale di ragioni extra fiscali “(…) che non si identificano in una redditività immediata dell’operazione, ma possono essere anche di natura meramente organizzativa e consistere in un miglioramento strutturale e funzionale dell’impresa”. In un’altro importante passaggio della sentenza, avviandosi alla conclusione dell’arresto, sottoponevano all’attenzione dell’Agenzia la circostanza in base alla quale – nell’esercizio dei demandati poteri di accertamento – questa sia tenuta a dimostrare l’effettiva condotta illecita sottesa agli schemi contrattuali prescelti dal contribuente. In proposito, nonostante ad un tale criterio resistano ancora oggi (malgrado importanti interventi di recente registrati nell’ambito della giurisprudenza di legittimità) talune inaccettabili presunzioni utilizzate piuttosto disinvoltamente dall’Erario, il Giudice di terza istanza disconosceva l’assunto utilizzato dall’Ufficio in base al quale occorreva riprendere a tassazione gli interessi passivi fiscalmente scontati dalla società incorporante in quanto “(…) lo stesso risultato poteva essere conseguito attraverso una diversa formula organizzativa e precisamente una fusione,invece che attraverso il trasferimento del pacchetto azionario (…) contro l’assunzione di rilevanti impegni economici per il finanziamento dell’operazione e conseguente riduzione del carico fiscale”, con ciò imponendo una misura di ristrutturazione aziendale diversa tra quelle giuridicamente possibili “(…) solo perché (…) avrebbe comportato un maggior carico fiscale”. Merita a questo punto confidare in interventi che, nello scongiurare audaci letture dell’art. 37 bis del D.P.R. n. 600/1973 da parte dell’Amministrazione finanziaria, riescano a sopperire alla cronica inerzia del legislatore nazionale che su di una materia come questa sta ritardando un intervento chiarificatore, lasciando le imprese in un limbo di incertezza certamente nocivo per la libertà di iniziativa economica. (S.C. per NL)

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