Con la sentenza numero 9673 depositata il 10 marzo 2011, la Corte di Cassazione ha precisato che l’imprenditore che attribuisce le attività ad una ditta inesistente risponde del più grave reato di dichiarazione fraudolenta per emissione di fatture false.
La terza Sezione Penale ha respinto così il ricorso di un contribuente che, condannato in primo e in secondo grado per il reato di dichiarazione fraudolenta mediante l’utilizzo di fatture false emesse da una ditta inesistente, rivendicava l’applicazione del reato meno grave ovvero la fattispecie di dichiarazione fraudolenta mediante altri artifici, prevista e punita dall’art. 3 del D.lgs. numero 74 del 2000 (Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto, a norma dell’articolo 9 della legge 25 giugno 1999, n. 205). La tesi difensiva dell’imprenditore utilizzava e concepiva la nullità materiale delle fatture, in quanto attribuite ad un’attività inesistente, come discrimine per la sussistenza dell’elemento obiettivo del reato, al fine di ottenere l’integrazione della fattispecie meno grave. La Corte, evidentemente contraria all’argomentazione presentata, ha affermato che l’ipotesi di reato più grave prevista all’art. 2 del D. Lgs. si applica indipendentemente dalla natura materiale o ideologica della falsità delle fatture incriminate, in virtù del connubio tra la ratio della norma stessa e la disposizione dell’art. 1 del medesimo testo normativo. Infatti, l’elemento realmente discriminante ai fini dell’individuazione della fattispecie di reato applicabile al caso concreto è unicamente l’utilizzo di fatture relative ad operazioni inesistenti, senza alcun riferimento o distinzione tra documenti “materialmente” falsi o “ideologicamente” falsi. (C.S. per NL)