Fare televisione non conviene più? L’Italia della vecchia tv alle prese con le sfide del futuro

L’infinita crisi, che non accenna a mollare la presa sull’economia italiana, si riverbera ancora una volta sul mercato televisivo, e si intreccia con le tendenze al cambiamento dei modelli di consumo di quelli che una volta si chiamavano “telespettatori”.

Tutto porta all’ineluttabile conclusione: il declino del business tv è una parabola discendente di cui non si vede la fine. Il 2012 è stato un anno discretamente catastrofico per i conti dei big player italiani del piccolo schermo: Mediaset farà registrare perdite per 40-50 milioni di euro, Rai per 200; l’ex-astro nascente La7 non riesce nemmeno a trovare un compratore, e anche Sky non se la passa benissimo, con un trend negativo degli abbonamenti che non accenna a fermarsi, ben al di sotto dei cinque milioni festeggiati in pompa magna poco più di un anno fa. Il dimagrimento del comparto appare ormai come un dato strutturale; ciò nonostante l’attuale atteggiamento delle aziende nazionali sembra essere ancora quello di aspettare indefinitamente la fine della tempesta, attribuendo le difficoltà solo alla congiuntura economica sfavorevole. Al massimo si procede, come nel caso di Mediaset, a drastici tagli di spesa che non riescono comunque a compensare le perdite. E’ indubbio che il calo degli investimenti pubblicitari sia in gran parte figlio della crisi, e che il diminuito appeal delle imprese del settore (proprio il caso La7 è sintomatico) sia da attribuirsi all’attuale insostenibilità del rapporto tra costi (di produzione e diritti) sempre più alti e ricavi sempre più ridotti. E’ pur vero però che il video rimane la principale fonte di intrattenimento degli italiani, e le solite vecchie tv generaliste mantengono livelli di ascolto che non hanno paragone in tutto il resto del mondo occidentale. Ovvio che anche da noi, con i soliti ritmi da fanalino di coda dell’innovazione, le cose stanno cambiando sull’onda della rete e dei nuovi dispositivi mobili. Ma proprio i tempi lunghi con cui il mutamento si sta manifestando dovrebbero dare la possibilità a chi manovra le leve del business di capire la direzione in cui si sta muovendo la nuova domanda e prendere le decisioni giuste per assecondarla. Negli USA, tanto per fare il solito paragone con un mercato che non ha niente a che fare con il nostro in termini di concorrenza e innovazione, il business della televisione tradizionale è in contrazione da anni. Ciò nonostante, i grandi network stanno mantenendo le loro posizioni grazie alla diversificazione dei canali distributivi e all’apertura verso le nuove vie di fruizione televisiva. Un fenomeno di cui si parla molto, ad esempio, è la cosiddetta “social-tv”, ovvero la coesistenza della visione dei programmi televisivi con l’utilizzo di dispositivi come tablet e smartphone per commentare e postare in rete le proprie impressioni ed emozioni. I “grandi eventi” televisivi americani, come i Grammy Awards, il SuperBowl e le finali NBA, hanno fatto registrare oltre 12 milioni di commenti sui social media. Per non parlare delle elezioni presidenziali o delle Olimpiadi di Londra, dove si sono raggiunte cifre tre volte superiori. Essere in grado di intercettare questo feedback, legandolo al proprio marchio anche attraverso l’utilizzo di appositi canali web, è ora essenziale per le strategie di marketing dei grandi brand televisivi. Non è la morte della tv, come molti continuano a profetizzare invano, ma semplicemente una delle sue nuove incarnazioni, che oltretutto poggia su uno dei punti di forza storici del medium, ovvero la possibilità di trasmettere contemporaneamente a miliardi di persone un avvenimento “live”. Allo stesso modo una nuova televisione, dai tempi e modi liquidi e frammentati, sta prendendo il posto di quella rigida e preordinata dei palinsesti tradizionali. Sono le nuove generazioni, che attingono la propria dieta mediale quasi esclusivamente da servizi come YouTube o Netflix, che stanno ora decidendo come sarà la tv del futuro. Quando questa fascia di consumatori, maturando, diventerà il principale target del mercato pubblicitario, avverrà l’inevitabile, massiccio spostamento degli investimenti dal broadcast alla rete. Se in Italia il movimento non è ancora così evidente, è solo per via della cronica arretratezza. Innanzitutto delle imprese, per molte delle quali la rete è ancora “altro da sé”, se non addirittura un nemico da combattere: aziende troppo legate a dinamiche extra-mercato, riluttanti ad abbandonare modelli che hanno funzionato fin troppo bene negli ultimi trent’anni, carenti di competenze, cultura e visione utili ad affrontare il futuro. Poi di una classe politica che continua a dimostrare pochissimo interesse e ancor più scarsa competenza verso questi temi. E infine di un pubblico che, stretto tra limiti strutturali imposti (vedi “banda stretta” e servizi che latitano) e mancanze culturali proprie, mantiene ancora in vita, nonostante tutto, la cara vecchia televisione. (E.D. per NL)
 

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