Le amiche, il fidanzato, i genitori e il collega non bastano più a raccogliere i nostri sfoghi. Sembra sia necessario urlarli al mondo attraverso Facebook.
È successo a Stephanie Bon una ragazza di Colchester, impiegata del Lloyds Banking Group, che ha lamentato le ingiustizie lavorative direttamente sul web, attraverso uno “status” che le è costato il posto di lavoro. “Il nuovo amministratore delegato prende 4 mila sterline l’ora, io 7. Mi sembra giusto”, ha commentato la giovane lavoratrice riferendosi all’arrivo del super-manager portoghese Antonio Horta Osòrio dalla banca spagnola Stander. La trentasettenne è stata elegante nell’esprimere la sua insoddisfazione remunerativa. Meno sottile invece è il mezzo con il quale si è raccontata, dato che probabilmente era meno rischioso sgolarsi in una piazza, quasi certamente meno popolata del social network. La comunicazione online è indeterminata nel numero dei destinatari: infiniti occhi leggono il pensiero esposto in vetrina, alcuni non lo considerano, altri lo interpretano e altri ancora lo giudicano. Questa volta, l’azienda inglese l’ha ritenuto, senza ammetterlo esplicitamente, un motivo di licenziamento, “giustificato” ex post dal termine del contratto di lavoro interinale. Spiegazione poco credibile: la ricca giurisprudenza del lavoro in merito ci convince che non sia andata così. La ragazza inglese, infatti, non è l’unico caso in cui, i commenti palesati in Facebook pregiudicano il posto di lavoro. Kimberly Swann, sedicenne inglese definì, in un commento sul social network, odioso il suo lavoro di fotocopiatrice alla Ivell Marketing & Logistics Ltd., al quale sfogo conseguì un’immediata interruzione del rapporto lavorativo, a detta dell’azienda, al fine di alleviare la ragazza da tale tediosa attività. Sara Amlesù, giovane milanese, creò un gruppo su Facebook chiaramente lagnoso nei confronti dell’azienda Danieli leader nella produzione di forni industriali, presso cui lavorava. L’iniziativa non gradita accompagnò alla porta anche la dipendente milanese. Il consiglio è quello di non sbottonarsi più di tanto e non dire agli amici del web ciò che non si direbbe in faccia al datore di lavoro. Il legame fiduciario con l’azienda è così capillare che può essere rotto o indebolito anche solo a causa di uno scherzo o di una leggerezza, tipica della moda del web giovanile. Ecco, facciamo tesoro dell’esperienza altrui: alla domanda “A cosa stai pensando?” posta sulla bacheca del nostro profilo è consigliabile rispondere con più furbizia e meno sincerità. Tutta questa smania di trasparenza non si sposa con la realtà, nella quale spesso conviene mordersi la lingua e mascherare i pensieri. (C.S. per NL)