Quando la locomotiva correva e pareva che di carbone ce ne fosse ancora per generazioni, le strategie aziendali erano spesso puntate verso la “diversificazione”, seducente termine che, nel suo mal impiego, sottintendeva la presunzione di poter rinnovare a propria voglia il successo conquistato in un dato mercato o con un certo prodotto. Piantonare traffici attigui a quello principale in cerca di (ritenute) facili opportunità di nuovi business era la parola d’ordine di capitani d’impresa abbagliati dalle economie di scopo. Poi, di sorpresa, il carbone è finito e nella caldaia sono state bruciate anche le improbabili tattiche di rabberciati scienziati mercantili che dei condottieri aziendali erano gli ispiratori. Brusco risveglio, quindi, e diretto contrordine alla cavalleria: al galoppo a difendere il core business, prima che si atomizzasse anche quello. Non fa eccezione il settore radiotelevisivo, dove, nell’ultimo lustro, avevamo assistito a megalomanie in campi di cui gli editori (soprattutto quelli di lignaggio non troppo spendibile) avevano ben poca consapevolezza. Ecco, uno degli effetti positivi della crisi è proprio quello di aver fatto scendere sulla Terra, anzitempo rispetto al quarantennale dello sbarco sulla Luna, gli astronauti della radio e della tv. A Milano, capitale del commercio italiano, gli improvvisati o i vanagloriosi, non a caso, hanno una specifica apostrofe: “Ofele’ fa el to mesté” (Googllare per la traduzione).