Editoria & Web. Cassazione: non sussiste diffamazione se l’articolo riporta inesattezze secondarie o marginali

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Il delicato tema della diffamazione a mezzo stampa torna sotto ai riflettori, questa volta con una sentenza pronunciata dagli Ermellini (Cassazione civile sez. III, n.7757/2020, pubblicata lo scorso 08/04/2020) con riferimento alla questione se la narrazione di fatti inesatti sia rilevante al fine di stabilire la configurabilità o meno del reato.

Le inesattezze marginali non configurano diffamazione

Nello specifico, la Corte Suprema ha stabilito, quale regola di giudizio, che “sono da considerarsi marginali quelle inesattezze che non mutano in peggio l’offensività della narrazione, e che, per contro, sono rilevanti le imprecisioni che stravolgono il fatto “vero” in maniera tale da renderne offensiva la sua attribuzione a taluno. Ove cioè si ritenga che il fatto “vero” non è offensivo ed è dunque da tale da rientrare, per la sua “verità”, nel diritto di cronaca, le inesattezze che lo riguardano, per avere rilevanza giuridica, devono essere tali da trasformare quel fatto da inoffensivo a diffamatorio”.

Il fatto

Attraverso tale pronuncia, i giudici di legittimità hanno dunque accolto il ricorso presentato da tre attori (il giornalista, il direttore responsabile di un noto quotidiano nazionale e il gruppo editoriale della testata) contro la sentenza di secondo grado.
Oggetto della controversia riguardava la pubblicazione online ad opera del giornalista di alcuni articoli afferenti a fatti di doping che vedevano coinvolto un medico.

In primo grado, il Tribunale aveva escluso la diffamazione, ritenendo che per gli articoli incriminati operasse l’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca e di critica.
La Corte di Appello, in contrapposizione ai giudici di primo grado, aveva invece ritenuto non operanti la causa di esclusione della responsabilità penale in parola, “in ragione del fatto che il giornalista non avrebbe riferito la verità dei fatti, ma li avrebbe riportati con alcune imprecisioni ed inesattezze, che infirmano la detta verità”. Secondo i giudici di secondo grado, quindi, “il giornalista, non avendo controllato i fatti prima di riferirli ha, da tale negligenza, dedotto il dolo eventuale della diffamazione“.

Diffamazione a mezzo stampa: un’orientamento già consolidato

Riprendendo l’orientamento giurisprudenziale già consolidato, tra cui la precedente sentenza della Corte di Cassazione n. 17197/2015, la Corte Suprema ha dapprima precisato che “in tema di risarcimento dei danni da diffamazione a mezzo stampa, la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie o marginali ove non alterino, nel contesto dell’articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili”. Successivamente ha chiarito che “ai fini del giudizio la rilevanza delle inesattezze va colta non valutandole di per sé, ma per il peso che esse hanno sull’intero fatto narrato, al fine di stabilire se siano idonee a rendere il fatto “falso”, e, oltre che tale, diffamatorio”.

Errore di ragionamento della Corte di Appello

I giudici di legittimità, enunciando tale rilevante principio di diritto, hanno contestato l’errore di ragionamento del tribunale di secondo grado: “E’ la regola di giudizio che è errata, in quanto assume che l’inesattezza di per sè comporta diffamazione, mentre l’inesattezza ha quell’effetto solo se trasforma il fatto da “vero” a “falso” ma in modo che quest’ultimo sia diffamatorio”. Per conseguenza la Suprema Corte, accogliendo il ricorso, ha cassato la sentenza della Corte d’Appello rinviando alla medesima la questione. (G.S. per NL)

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