Chi è un giornalista? Chi ha una qualche tessera associativa, chi lavora per un organo di stampa o un’emittente televisiva registrata, o semplicemente chi fa informazione?
Nell’era di Internet, in cui ognuno ha la possibilità di pubblicare su un blog o un sito i propri pensieri, non è una domanda oziosa; anche perché coloro che ricadono nella definizione di “giornalisti” hanno spesso maggiori tutele giuridiche rispetto al cittadino comune. Non così negli Usa, dove una Corte californiana ha sentenziato venerdì scorso che anche i non professionisti, purché trattino argomenti di pubblico interesse, hanno diritto alla protezione legale concessa ai giornalisti ai sensi del Primo Emendamento. Nel caso vengano querelati per diffamazione, spetta dunque al querelante provare che certe affermazioni siano state fatte in malafede e che a seguito di esse, si sia subito un danno di qualche tipo. La giuria della nona Corte di Appello di San Francisco, ha così ribaltato un precedente verdetto del 2011, con cui la blogger Crystal Cox era stata condannata per aver accusato di frode fiscale un curatore fallimentare, Kevin Padrick, e la sua datrice di lavoro, l’azienda Obsidian Finance Group. La Corte ha ritenuto che, pur non essendo una giornalista professionista, dato che le affermazioni di Cox “sollevavano interrogativi sul fatto che Padrick e la Obsidian avessero mancato al dovere di proteggere gli investitori truffati, essendo in combutta con il loro cliente originale” – come ha scritto il giudice Andrew Hurwitz – erano cioè di interesse generale, la donna avesse diritto ad essere tutelata ai sensi del Primo Emendamento. Questo malgrado la blogger non sia di per sé certo una persona di specchiata virtù, perlomeno stando all’opinione la Corte, secondo cui, quella di gettare accuse di frode a destra e a manca, e poi chiedere denaro in cambio del ritiro delle stesse, sia per lei un’abitudine consolidata. E malgrado anche il fatto che in questo caso specifico, in discussione, come hanno fatto notare gli avvocati di Obsidian, non era tanto il merito delle accuse, dimostratesi false, ma il possibile risarcimento per danni; se i diffamati non riusciranno a provare che ci sia stato dolo da parte della blogger, potranno dire addio ai 2,5 milioni di dollari che erano stati loro concesso in primo grado. Se a loro interessano – comprensibilmente – i soldi, per molti osservatori la sentenza ha soprattutto un valore simbolico e come precedente. Come fa notare Matthew Ingram su GigaOm, della stessa protezione concessa a Cox potrebbero beneficiare, in caso di bisogno, personalità di ben altro calibro, come lo staff di Wikileaks, Julian Assange e in generale, tutte le “gole profonde” che rivelano segreti su Internet, purché di tratti di informazioni rilevanti per la comunità. È probabile che la decisione della Corte non piaccia ai membri dell’establishment mediatico che avevano gioito in occasione della condanna di Cox in primo grado. Tuttavia, come ha affermato l’avvocato della difesa, Eugene Volokh, la pronuncia della Corte non rappresenta altro che la presa d’atto che “in quest’epoca, con così tante cose importanti prodotte da persone che non sono professionisti, è sempre più difficile decidere chi sia un membro della stampa” e chi no. Come direbbe il celebre professore di giornalismo della New York University, Jay Rosen, è il contenuto a richiedere protezione, se rilevante, indipendentemente da chi se ne fa portatore. O, come direbbe, magari con parole un po’ più colorite, Forrest Gump, “giornalista è chi giornalista fa“. Non è giornalista chi possiede un tesserino, ma chi si comporta come tale. (fonte Wired.it)