L’ormai assodato tracollo della carta stampata continua, sia per vendite di copie che in pubblicità; la reazione principale del settore sembra essere quella di lamentarsi del momento difficile, ignorando quasi del tutto le nuove opportunità digitali.
Continua l’ormai più volte discusso crollo di acquisti per la carta stampata, sempre più sofferente a causa di quella che, ormai è chiaro, è una forte perdita di interesse da parte del pubblico nei quotidiani cartacei. Le edicole arrivano a registrare una discesa record del -41,9% a causa della crescita sempre più travolgente del digitale. Un articolo pubblicato sul numero odierno di ItaliaOggi, ad opera di Stefano Lorenzetto, dipinge una situazione tragica con toni un po’ malinconici, raccontando però quella che è realmente una oggettiva difficoltà del settore. Una situazione, fra l’altro, che non esiste solo nel nostro paese. Secondo il rapporto presentato lo scorso anno da KPCB, un’azienda di venture capital della Silicon Valley, anche oltreoceano il tempo quotidiano dedicato in media ai giornali è calato dal 7% al 4% dal 2011 al 2014. E’ inoltre nota la continua contrazione dei ricavi pubblicitari che, a fronte di una ripresa del settore in quasi tutti i comparti (specialmente la radio), continua a crollare drasticamente per quello che riguarda la carta stampata. Il direttore del Niemen Journalism Lab di Harvard, Joshua Benton, si esprime in maniera abbastanza netta sull’argomento già da qualche anno, sostenendo che “la pubblicità sulla stampa non tornerà”. E intanto nel sopracitato articolo ad opera di Lorenzetto, che pare quasi un bollettino di guerra, si evidenzia come la rete sia “il regno del tutto è di tutti, quindi del tutto è gratuito” dove mal si inseriscono le proposte di abbonamento avanzate da diverse testate note nella loro versione digitale. Inoltre, continua Lorenzetto, “ci sono anche in circolazione astutissimi predoni telematici che ci fregano le nostre opere d’ingegno, senza che la casta degli scribi muova un dito per impedirlo” arrivando addirittura a dire “proporrei alla Federazione italiana editori giornali di provare a chiudere per sei mesi i siti di tutti i giornali” in modo da vedere come andranno avanti “gli scrocconi del web”. Affermazioni e critiche forti, che però presentano alcuni sostanziali difetti di forma. Prima di tutto, questo tipo di analisi tralascia realtà digitali come Huffington Post, Vice, Wired e altri che sicuramente non sopravvivono sul latrocinio delle produzioni altrui, testimoniando che uno spazio di sopravvivenza per l’informazione nell’era digitale esiste eccome. A dirla tutta, il dato più oggettivo non è tanto quello di un cannibalismo incontenibile, quanto di una incapacità di cogliere ciò che stava (e sta tuttora) accadendo. Fatto innegabile è che esistano modelli di sviluppo digitale anche per i giornali: per esempio sistemi come i paywall per i siti di testate giornalistiche riscuotono un discreto successo e altrettanti risultati in altri paesi. Ne sono la prova esempi come il New York Times che già nel 2011 raggiungeva una meritevole crescita del 28% sugli abbonamenti online grazie a questa politica. In Italia se ne sono accorti in pochi. Si potrebbe obbiettare che il Times raggiunga una fetta di utenza astronomica che ha sicuramente aiutato la novità, ma buona parte dei suoi numeri si deve anche agli sforzi fatti per far meglio comprendere il mondo giornalistico all’utenza, con attività di forum, blog e reportage, per migliorare quello che nel mondo del marketing si chiama engagement. Coinvolgere l’utenza è da sempre una delle grandi sfide del digitale e, mentre il citato mondo del marketing sembra averlo ben chiaro, quello giornalistico ancora ritarda, almeno in Italia. I suoi esponenti preferiscono sedere sulle loro poltrone, criticare la società punendola con prolissi libri dal target commerciale discutibile e, occasionalmente, candidarsi a sindaco. Anche il mondo del mobile è stato sfruttato in maniera piuttosto contenuta, sebbene sia in crescita ormai da troppo tempo perché ci sia davvero bisogno di ripeterlo. Eppure, ad oggi, quando si pensa alla stampa in Italia si pensa ancora al giornale cartaceo, alle antidiluviane edicole e la loro necessità di vendere più copie. E si potrebbe citare anche il mondo dei video: su YouTube hanno un’ottima cerchia di utenza i canali di informazione, ma non sono poi troppe le testate italiane che hanno aderito all’opportunità. Anche Google ha lanciato una campagna mettendo a disposizione dei fondi per coltivare la cultura del giornalismo online e sono poche le testate importanti della carta stampata italiana che vi hanno aderito come Il Fatto Quotidiano, La Stampa e Il Giornale. Il problema forse non è nella natura profittatrice del web, che si appropria di contenuti altrui o che svende la professione giornalistica, ma nell’attaccamento a quello che la professione era trent’anni fa, quando il web non era nemmeno un sogno ed era la carta l’unica a trasportare informazione. Magari, bisognerebbe domandarsi perché continuare a pretendere dagli utenti finali che acquistino pile di libri invece di offrire un semplice e-book. Insomma, in conclusione, prima di polemizzare sarebbe il caso di fare i conti con la realtà. (E.V. per NL)