Editoria: in Usa sarà un ‘annus horribilis’. L’Europa corre ai ripari 1 quotidiano su 10 sparirà. il 40% delle persone si informano sul web

(Franco Abruzzo.it) – Un quotidiano su dieci sparirà negli Usa nel corso di quest’anno e molte città americane resteranno, per la prima volta dalla fondazione, senza un loro quotidiano. È in sintesi la fosca previsione fatta dagli esperti del settore che, secondo quanto scrive ‘la Stampa, prevedono che l’editoria non sarà affatto immune dalla crisi economica che negli Stati Uniti sta provocando tagli e licenziamenti a catena e che si va a sommare alle difficoltà di un’industria già sofferente per la concorrenza di internet e per la riduzione di lettori e investimenti pubblicitari. Le previsioni di un ‘annus horribilis’ dei giornali si basa su dati precisi: dal 2000 al 2007 la tiratura complessiva dei quotidiani è scesa di 5 milioni di copie e nell’ultimo trimestre del 2008 la raccolta pubblicitaria è diminuita di circa il 20%. «Già 20.000 persone che lavoravano nei giornali – scrive il quotidiano – hanno perso il posto e migliaia di altre le seguiranno» con conseguenze anche sui contenuti. Supplementi storici come quello letterario del ‘Washington Post’ sono stati aboliti e i giornalisti «sono stati obbligati a lavorare contemporaneamente per la carta stampata e per il sito web del giornale dal quale si spera arriveranno in futuro i soldi» anche perchè sale al 40% la percentuale di persone che si informano su internet contro il 30% di quanto continuano a cercare notizie sui giornali. La crisi riguarda anche le testate europee con giornali storici come il ‘Financial Times’ che per resistere e non licenziare questa estate adotterà la settimana di tre giorni lavorativi. A resistere pensa anche Rupert Murdoch del cui impero fanno parte il ‘Times’ di Londra e il ‘Wall Street Journal’ nonostante le quotazioni del suo gruppo abbiano perso il 60% in un anno. (Adnkronos)
 
di Vittorio Sabadin per "La Stampa" del 4/3/2009

Nell’aprile del 1859 un carro trainato da buoi si era fatto largo tra i cavalli dei cow-boy e dei cercatori d’oro che affollavano le polverose strade di Denver. Aveva trasportato per mille chilometri da Omah, nel Nebraska, una macchina da stampa usata che nel giro di pochi giorni avrebbe impresso la prima copia di uno dei più antichi quotidiani americani, il Rocky Mountain News.
Cento anni dopo, venerdì scorso, il giornale ha dedicato l’intera prima pagina all’ultimo scoop: la notizia della sua chiusura. La scomparsa di un quotidiano diventato famoso per avere vinto numerosi premi Pulitzer e per la qualità del suo reporting ha scosso in modo particolare i già disorientati giornalisti americani.
Da mesi vanno a dormire pensando che la mattina dopo potrebbe essere quella in cui riceveranno una e-mail di licenziamento a causa dei drastici piani di ristrutturazione attuati dagli editori, e vedere scomparire da un giorno all’altro un giornale centenario, dopo che per mesi nessuno si era fatto avanti per acquistarlo, ha fatto capire a tutti che la crisi della carta stampata è molto seria e che quando sarà finita niente sarà più come prima.
Quello del Rocky Mountain è stato finora il caso più eclatante e discusso, ma decine di altri giornali meno famosi sono stati costretti a chiudere negli ultimi mesi. Il leggendario San Francisco Chronicle si appresta a fare la stessa fine e più di 30 quotidiani, tra i quali testate prestigiose come il Philadelphia Inquirer, il Philadelphia Daily News, il Chicago Tribune, il Los Angeles Times e lo Star Tribune di Minneapolis sono ricorsi all’amministrazione controllata per evitare il fallimento.
Gli esperti di editoria hanno previsto che nel corso di quest’anno sparirà un giornale su dieci e che molte città americane resteranno, per la prima volta dalla fondazione degli Stati Uniti, senza un loro quotidiano.
La crisi economica che ha colpito il paese sembra voler assestare il colpo definitivo a una industria da tempo in difficoltà a causa della concorrenza di Internet, del calo dei lettori e della progressiva riduzione del fatturato pubblicitario. Quello che si credeva sarebbe accaduto nel giro di qualche anno sta accadendo in pochi mesi, con una accelerazione che preoccupa gli editori e i giornalisti di tutto il mondo.
Un anno fa una azione del New York Times valeva più di 50 dollari, ora vale meno dei 4 dollari che il lettore paga per una singola copia dell’edizione domenicale del giornale. Dal 2000 al 2007 la tiratura complessiva dei quotidiani è scesa di 5 milioni di copie e nell’ultimo trimestre del 2008 la raccolta pubblicitaria è diminuita di circa il 20%.
«I ricorsi all’amministrazione controllata – ha detto John Penn, un avvocato esperto in fallimenti che segue alcuni giornali in difficoltà – sono come i canarini nelle miniere: ci avvertono che il modello di business deve cambiare, perché quello vecchio non funziona più».
E quando si tratta di cambiare, gli americani non ci pensano mai troppo a lungo: già 20.000 persone che lavoravano nei giornali hanno perso il posto e migliaia di altre le seguiranno; il numero di pagine e di edizioni è stato ridotto da quasi tutte le testate; supplementi storici come quello letterario del Washington Post sono stati aboliti; le organizzazioni del lavoro sono state riviste per fare le stesse cose di prima con meno addetti; i giornalisti sono stati obbligati a lavorare contemporaneamente per la carta stampata e per il sito Web del giornale, dal quale si spera arriveranno in futuro i soldi.
I proprietari cercano di rimediare in questo modo agli errori commessi ai tempi del credito facile e della bolla del mercato pubblicitario, quando si avventurarono in acquisizioni molto costose e non sempre sensate.
I guai del New York Times, che l’anno scorso ha perso 57,8 milioni di dollari, non sono tanto dovuti al calo delle copie e delle inserzioni, ma dall’incauto acquisto del Boston Globe e della squadra di baseball dei Red Sox.
Lo stesso vale per il gruppo Tribune, entrato in serie difficoltà dopo essere finito, con un’altra squadra di baseball, quella dei Chicago Cubs tanto cari ad Obama, nelle mani dell’immobiliarista Sam Zell. I magri introiti dei giornali non sono più in grado di rimborsare i debiti contratti con le banche e il conto da pagare viene passato ai giornalisti, alla qualità del prodotto e, alla fine, ai lettori.
Molti si domandano quali saranno le conseguenze di questa crisi, anche per la difesa dei principi democratici alla quale i giornali hanno storicamente contribuito. In una città senza un libero quotidiano, chi controllerà l’operato del sindaco? Chi verificherà che la polizia non commetta abusi? Chi si occuperà di controllare come vengono spesi i soldi dei contribuenti?
In Europa la crisi non è ancora così grave, ma è comunque preoccupante. Già si fanno avanti nuovi improbabili compratori, pronti a rilevare imprese agonizzanti come quella dello storico Evening Standard di Londra, acquistata da una ex spia del Kgb sovietico, Alexander Lebedev.
Giornali di straordinaria qualità, come il Financial Times, hanno deciso di resistere: questa estate adotterà la settimana lavorativa di tre giorni, riducendo lo stipendio ai giornalisti, pur di evitare altri licenziamenti.
Anche Rupert Murdoch, del cui impero fanno parte il Times a Londra e il Wall Street Journal a New York, sembra voler resistere, nonostante le quotazioni del suo gruppo abbiano perso il 60% del loro valore in un anno.
Qualche giorno fa ha inviato una lettera ai dipendenti: «I nostri concorrenti saranno tentati di seguire la via più facile, riducendo la qualità in cerca di immediati dividendi. Voglio essere molto chiaro su un punto: mentre gli altri verranno meno al loro patto con i lettori, noi rinnoveremo il nostro».
I giornalisti e gli editori che combattono per garantire un futuro di qualità alla carta stampata, hanno da qualche giorno un loro eroe, celebrato con una intera pagina da Le Monde. Si chiama Marc Lacey, ed è il corrispondente dal Messico del New York Times.
Lacey ha pubblicato un profilo del miliardario messicano Carlos Slim, nello stile obiettivo della testata, senza risparmiargli le critiche che meritava ed elencando tutti i dubbi che stanno dietro alla costruzione della sua fortuna. Slim non è un ricco qualsiasi: spendendo 250 milioni di dollari è diventato qualche mese fa il secondo azionista proprio dell’agonizzante New York Times e potrebbe presto diventarne il primo.
Nella trincea del grattacielo di Renzo Piano che il giornale è già stato costretto a vendere, i giornalisti come Marc Lacey resistono, senza trattamenti di favore per nessuno e senza pensare che la situazione economica del giornale possa compromettere l’indipendenza della redazione. Quando verrà meno anche questo principio, sarà davvero finita.

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