Come sarà il futuro dei giornali? La domanda è stata il fulcro della giornata-evento “The Future of newspapers” organizzata lo scorso 21 giugno a Torino da La Stampa per celebrare i 150 anni di attività del quotidiano. Sono intervenuti editori e direttori di testate di tutto il mondo per fare una panoramica sulla situazione attuale dei giornali e sui possibili sviluppi futuri di un settore che, come ammette candidamente il direttore de La Stampa Maurizio Molinari, oggi è in crisi. In particolare, Molinari ha sottolineato che i ricavi della carta stampata calano e mentre il digitale (edizioni online, ma soprattutto social) vale 25 centesimi di dollaro ad utente, mentre i big come Facebook e Google riescono a guadagnare in media 25 dollari ad utente unico ed ha rivolto un invito preciso alla platea di colleghi: “non bisogna avere paura di ripensarsi”. Il dibattito è partito da alcuni problemi comuni, come ricavare profitto dal digitale, quali modelli di business lanciare per le edizioni online, come fronteggiare il pericolo delle fake news e la concorrenza dei social media. Quanto al modo di affrontarli, ogni testata segue indirizzi differenti. Lion Barber, direttore del Financial Times, ha spiegato come il giornale punti sull’informazione del weekend (momento della settimana in cui i lettori hanno più tempo) e sulle esclusive frutto di giornalismo investigativo e di qualità, per la creazione di storie che mobilitino l’opinione pubblica. Anche Jeff Bezos, editore del Washington Post, si è detto convinto che il giornalismo di qualità sia in grado di attirare gli abbonati.
C’è chi ne fa una questione di contenuti, come la testata indiana Hindusian Times diretta da Bobby Ghosh, che privilegia “crimini, cambiamenti sociali e lavoro”. Dello stesso avviso anche Carlo De Benedetti, presidente del nuovo gruppo Gedi (che sta per inglobare Repubblica) che ha osservato come “il lettore non è più uno sconosciuto che va in edicola, occorre conoscerlo, capire cosa vuole leggere e ottenere dei riscontri su quello che ha letto. I big data possono servire a questo proposito così come i video montati apposta per smartphone possono rendere più attrattive le notizie”. Una visione molto orientata all’infotainment, che però deve stare molto attenta a non scivolare sulla pericolosa china dell’eccessiva customizzazione del prodotto, che conduce al c.d. isolamento cognitivo e nega lo scopo precipuo del fare informazione. Del resto, il giornalismo nell’era del social network può trovare un vessillo sotto cui unirsi nel dovere etico di combattere la piaga delle “fake news”. Il direttore del quotidiano brasiliano O Globo Ascanio Seleme ha proposto addirittura di classificarle come “news”, perché sono contenuti che non hanno dignità di notizia e indica come unica arma possibile il giornalismo professionale, quello che produce notizie vere e verificate. Curiosa la considerazione sui format fatta da Lydia Polgreen, editore del Whashington Post, secondo cui l’informazione potrebbe andare verso realtà virtuale, tuttavia bisogna stare attenti perchè“i format tradizionali piacciono ancora e non vanno dismessi”. Posizione confermata dal presidente Fieg Maurizio Costa che, con un sospiro di sollievo ha sconfessato la funesta profezia di chi diceva che nel 2017 sarebbe stata stampata l’ultima copa del New York Times: la carta stampata è ancora viva. (V.D. per NL)