Nel precedente articolo del 23 febbraio si è trattato di come, a fronte di un accordo tra News Corp e Google, Facebook avesse invece scelto di scendere in campo contro gli editori australiani, bloccandone i contenuti sulla propria rete sociale.
Lo stop è durato pochi giorni ed i media hanno parlato di un’importante vittoria per il settore dell’editoria nella battaglia per la monetizzazione dei click (pay per click invertito). Ma è veramente così?
Legge approvata
La legge oggetto del contendere tra le parti, detta “News Media and Digital Platforms Mandatory Bargaining Code”, è stata approvata dopo la pubblicazione del nostro articolo, diventando esecutiva il 24 febbraio.
Limite di tre mesi per un accordo
In essa viene confermato il limite massimo di tre mesi (dunque fino a fine maggio 2021) perché venga trovato un accordo economico tra le parti. In mancanza, sarà un arbitro “super partes” a definirne i contorni.
Qualche numero
Come si ricorderà, a fronte delle richieste degli editori, Facebook aveva contrattaccato rovesciando il tavolo e stimando in 322 milioni di dollari (265 milioni di euro) il valore dei 5,1 miliardi di click inviati verso l’editoria australiana. Nell’articolo avevamo sorvolato sul valore del singolo click.
Calcoliamolo allora oggi.
Una miseria
Fatta la divisione, il pay per click risultante è di 0,05 euro/click.
Una miseria, considerando che il cost per click di una campagna fatta da una piccola impresa locale è in genere attorno a 0,50 euro/click (quindi dieci volte tanto). E che una qualunque campagna pubblicitaria digitale costa almeno 100 volte tanto.
Quali sono i motivi di questa valutazione?
Un’ipotesi
Non abbiamo trovato sulla stampa internazionale alcuna analisi in merito.
Avanziamo dunque una nostra ipotesi: Facebook sta mettendo le mani avanti. Muovendosi per prima sta dicendo quanto è disposta a pagare, nel caso in cui vi fosse davvero costretta.
Il caso Google
Per parte propria, dopo l’accordo con News Corp, Google ha siglato un’intesa con il gruppo Nine Entertainment, conglomerato che include alcune stazioni radio (AM e DAB+), reti televisive free-to air e a pagamento e importanti quotidiani. Di questo accordo sono note le condizioni economiche: 30 milioni di dollari (USA) all’anno, per cinque anni.
Una grande vittoria?
Sembrerebbe una grande vittoria. Ma occorre esaminare meglio.
Google non ha accettato di pagare per utilizzare le news dell’editore. Pagherà infatti affinché questo adotti le sue piattaforme Google News Showcase e Subscribe with Google.
Barter
Inoltre non tutta è moneta sonante: parte dell’importo è erogato in “advertising credits” e “revenue sharing agreement for use of content on YouTube”. Nel primo caso si tratta di barter (in italiano più prosaicamente detto baratto). Nel secondo – se capiamo bene – Google sta dicendo che l’editore potrà condividere i ricavi che Google ottiene da selezionati video di YouTube.
Quanto vale l’accordo per Google.
Considerando il fatturato annuo di Google (oltre 182 miliardi di dollari nel 2020), i 30 milioni di dollari dell’accordo australiano – se fossero moneta sonante – equivarrebbero a circa un’ora e trenta di giro d’affari per Google. Poca cosa davvero.
Gli effetti collaterali
È interessante osservare gli effetti collaterali causati dal periodo di black-out di Facebook. Leggendo la stampa internazionale, dove sono presenti svariate interviste e case studies, risulta che gli utenti – lungi da essere ritornati ad acquistare i quotidiani in edicola – hanno semplicemente optato per differenti piattaforme digitali.
Gli aggregatori
Nella specie, Apple News+, Microsoft News ed altri aggregatori. Notare che a beneficiare non sono stati gli asset online degli editori, ma altre piattaforme.
Il nostro dubbio
Da qui il nostro dubbio, già ripetutamente espresso dalla nostra testata relativamente al mondo della radiofonia italiana: investire pesanemente nella propria presenza sui grandi social media rischia di essere un’operazione controproducente.
Cosa significa mettersi nelle mani di Google e Facebook?
Anzitutto, nutrire una macchina pubblicitaria ultra-raffinata di terzi. Consolidare una intermediazione con i propri lettori, nel momento in cui nulla è più importante della relazione diretta con gli stessi. Mettersi nelle mani di un sistema opaco, in cui le regole cambiano continuamente e arbitrariamente. Attribuire al pay per click un’importanza eccessiva, favorendo gli articoli click-bait a scapito di quelli di spessore.
Il tutto per ottenere pochi centesimi di euro per click.
Concorrenti potenziali
C’e’ forse anche un problema potenzialmente più insidioso.
Ricordiamo la storia di Netflix: da mero distributore di contenuti prodotti da terzi si è nel tempo evoluto diventando produttore in prima persona. Con ottimi risultati attestati dai numerosi premi.
I Nuovi Editori
Ebbene, costretti a pagare editori terzi per disporre di contenuti informativi, i grandi player del web potrebbero infine essere tentati di seguire la stessa strada, trasformandosi da distributori/aggregatori a produttori di contenuti. Diventando insomma essi stessi editori in prima persona. Senza alcuna necessita’ di articoli click-bait. (M.H.B. per NL)