da Franco Abruzzo.it
di Giulio Divo
Carissimo dott. Abruzzo, Le scrivo per via della stima che ho nei suoi riguardi per le mille battaglie che so lei avere combattuto per la difesa della dignità dei giornalisti. Detto questo volevo segnarle due fatti, che a mio avviso aprono un dibattito sulla deontologia del giornalista medio. Si tratta dei casi di Alberto Stasi, accusato dell’omicidio della sua ex fidanzata Chiara Poggi in quello che è passato alle cronache come “L’omicidio di Garlasco” e del caso di Abdel Fami Marzouk, marito di una delle vittime della cosiddetta “strage di Erba”. Sarò breve e partirò dagli eventi nel loro ordine cronologico.
Primo caso. Marzouk, circa due settimane fa, è stato coinvolto in una questione di traffico di droga e sono state pubblicate le intercettazioni della sue telefonate private. A parte che non ho visto nessuna levata di scudi da parte di politici sull’opportunità di pubblicare quelle intercettazioni – a palese conferma che viviamo in una situazione ormai orwelliana – sono rimasto esterrefatto dalla assoluta non pertinenza di quanto pubblicato rispetto ai fatti contestati. Ad Abdel Fami Marzouk, a seguito di quelle intercettazioni, si può contestare solo di avere abusato di cocaina e di non avere alcuna profondità affettiva (ha dichiarato che sono stati i mesi più belli della sua vita e che ha fatto festini a base di sesso e droga: pietà umana per il personaggio, ma il rilievo giornalistico quale sarebbe? Che un uomo, marito di una donna e padre di due bambini assassinati è persona di scarsa statura morale?). Si tratta di questioni pertinenti? O servono solo a mettere in cattiva luce un individuo per via di alcuni comportamenti ambigui che evidentemente disturbano il sentire comune? Non c’è niente di penalmente rilevante. Erano conversazioni private. Ritengo sia stato abbondantemente violata la regola della continenza (mi verrebbe da dire che sono rivelazioni buone per una puntata di “Porta a porta” con tanto di commento di Crepet, Francesco Bruno, Alba Parietti e altri, ma andiamo oltre).
Secondo caso, Alberto Stasi. Oggi “La Stampa” on line titola: “Foto hard nel PC: l’ultimo segreto di Alberto Stasi” (e questo è solo un esempio, tra le titolazioni sconfortanti date sulla notizia). Questo titolo, da cittadino, mi indigna. Quanti ragazzi poco più che ventenni hanno guardato una immagine pornografica senza per questo avere necessariamente massacrato la propria fidanzata? Che cosa aggiunge, e cosa toglie, questa notizia, rispetto alla verità processuale? Che genere di utilità ha il fatto in sé, ai fini della cronaca? Non le pare solo un orrendo modo per additare il presunto colpevole al pubblico ludibrio? Nella titolazione non si fa riferimento alcuno al fatto che il computer di Stasi sarebbe poi stato spento per due ore, il che fa crollare il suo alibi: situazione giornalisticamente ben più pregnante, ma centrare l’attenzione sulle immagini pornografiche che lo Stasi può avere guardato significa avviare una campagna di stampa colpevolista nei suoi confronti. Il che è tutto tranne che giornalismo. È pettegolezzo da parrucchiera, chiacchierata da bar. Nient’altro che questo. Anche qui la continenza va a farsi benedire, per usare un eufemismo.
Sono francamente stufo di seguire con sempre crescente delusione la piega che sta prendendo la professione. Chiaramente poi si offre il fianco alle critiche di chi non rispetta i giornalisti e ne vorrebbe abolire l’Ordine. E infatti mi chiedo se – valutata la professionalità di alcuni direttori e la inconsistenza di certe linee editoriali – coloro che chiedono la chiusura dell’Ordine non abbiano ragione. Io mi occupo di medicina. Mi capita di scrivere scrivo di calli, verruche ed influenza. Lo so: non nobilito la categoria con il mio lavoro di poco conto, io sono uno dei tanti, dei tantissimi che ci campa onestamente, pagando i contributi e rifiutando marchette. Tuttavia non vendo fumo: i calli sono calli. I duroni, duroni. E le verruche, verruche. E ritengo sia questa l’essenza di questo lavoro, non altro. Così, in chiusura, ribadisco: l’indignazione è forte, la nausea tanta e la voglia di mollare tutto per dedicarmi ad altro, aumenta sempre di più. Perché questo mestiere, se già non lo è, rischia di venire irrimediabilmente sputtanato.
Con la solita cordialità e una discreta amarezza,
Giulio Divo